La vita davanti a sé di Romain Gary
Creato il 01 giugno 2012 da Tiziana Zita
@Cletterarie
Non è che le cose vadano bene per il piccolo Momo, allevato da una vecchia ex prostituta, insieme a un’altra decina di bambini, tutti figli di prostitute. A differenza degli altri bambini, la sua mamma puttana non lo viene mai a trovare e lui non sa proprio chi sia, non sa neanche quando è nato e quanti anni ha esattamente e tutto sommato non è neanche convinto di essere arabo.
Madame Rosa, la vecchia ex prostituta ebrea, scampata al campo di concentramento, pesa 95 chili e ogni giorno si deve fare sei piani di scale a piedi per arrivare nell’appartamento dove vive insieme ai bambini che le sono stati affidati perché in Francia una legge vieta alle prostitute di allevare i propri figli. Di certo non navigano nell’oro, anche perché le mamme ogni tanto smettono di pagare la quota mensile e spariscono. Siamo a Parigi, a Belville, nel dopoguerra, 40 anni prima di Pennac, in una periferia piena di razze, colori, lingue e religioni, ma ugualmente povera e degradata.
Tutti i bambini hanno una mamma che ogni tanto li va a trovare (il padre nell’universo delle prostitute non è contemplato, in quanto non si sa chi sia) tranne Momo – con i suoi grandi occhi neri – e questa sua stranezza lo preoccupa parecchio.
Ma la sua preoccupazione maggiore è per madame Rosa le cui condizioni di salute a poco a poco peggiorano. Momo ha il terrore di perderla. Oltre a madame Rosa che si trucca molto, piange tutti i giorni e dorme con una foto di Hitler sotto al letto perché quando è molto giù le basta tirarla fuori e ricordare a cosa è scampata per sentirsi meglio, c’è il signor Hamil, il vecchio venditore di tappeti musulmano che ha insegnato a Momo tutto quello che sa (a scuola non lo hanno voluto). Poi c’è madame Lola che è un trans senegalese, ex campione di boxe nel suo paese, che porta sempre cioccolatini e champagne (perché chi batte è fissato con i prodotti di lusso), ma anche soldi a questa strana “famiglia” piena di bambini cristiani, ebrei e musulmani. C’è anche il signor N’Da Amédée, il protettore nigeriano che gira con le guardie del corpo e va da madame Rosa affinché lei gli scriva delle lettere alla sua famiglia, visto che è analfabeta. Nelle lettere madame Rosa lo fa studiare per diventare appaltatore di lavori pubblici e costruire dighe, ponti e strade per essere un benefattore nel suo paese, cosa che lo riempie di soddisfazione. E poi c’è il signor Walumba, il mangiatore di fuoco, che vive in una stanza al quinto piano con tutta la sua tribù.
Quando madame Rosa va in catalessi, oltre al dottor Katz, che però fatica a salire sei piani di scale, chiamano il signor Walumba che vomita fiamme davanti a lei. Poi i suoi compagni le danzano intorno per scacciare gli spiriti maligni. Quando la povera donna si sveglia e si trova circondata da uomini seminudi urlanti che le girano intorno come gli Apache, rischia l’infarto per la paura.
E quando le condizioni di salute di madame Rosa peggiorano e non ce la fa più a salire i sei piani di scale, i bambini si mettono tutti dietro di lei e la spingono su.
Se non fosse che La vita davanti a sé è un romanzo bellissimo, direi la vita di Romain Gary è un romanzo ancora più straordinario. Gary è l’unico scrittore ad aver vinto due volte il premio Goncourt, il più prestigioso premio letterario francese. Com’è possibile se questo premio si può assegnare una sola volta?
Semplice, ha usato uno pseudonimo. Gary ha vinto per la seconda volta con La vita davanti a sé, nel 1975, firmandosi con il nome di Emile Ajar. Una bella soddisfazione per un autore che era ormai snobbato e disprezzato dai critici che lo consideravano al capolinea. E lui non ha mai detto niente. Si è portato il segreto nella tomba. Solo alla sua morte si è scoperto che Emile Ajar era in realtà Romain Gary.
Ma il suo vero nome non è neanche Romain Gary, bensì Romain Kacev, emigrato russo in Francia all’età di 13 anni. Occhi blu da cosacco, bello, eroe di guerra, diplomatico, viaggiatore, regista e scrittore, Gary vince il Goncourt nel 1956 con Le radici del cielo. Si sposa due volte, la seconda con la bellissima Jean Seberg, l’attrice protagonista della Nouvelle Vague. Lui ha 40 anni, lei 24. Divorziano nel 1970. Nel 1975 partecipa nuovamente al Goncourt all’insaputa di tutti, anche dell’editore. Vince. Si mette d’accordo con il nipote Paul Pavlowitch per affinché impersoni il ruolo del vincitore.
Tanto per completare questo circolo di eccellenza, nel 1978 il film omonimo, diretto da Moshé Mizrahi e interpretato da Simone Signoret, vince l’Oscar come miglior film straniero.
Nel 1979 muore suicida Jean Seberg. Un anno dopo, nel 1980, Romain Gary si uccide, sparandosi un colpo alla testa. Lascia un biglietto: “Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove”.
Potremmo anche credergli, visto che i due avevano divorziato nel 1970 e nel frattempo lei si era risposata due volte. Eppure come dicevano i latini: excusatio non petita, accusatio manifesta. Come dire, le negazioni affermano e tradiscono chi le fa.
Solo alla sua morte si è scoperto che l’autore dell’acclamato romanzo La vita davanti a sé era Romain Gary. Un trionfo: un linguaggio moderno, gli emarginati della banlieu parigina per la prima volta protagonisti. Dopo di lui tanti altri scrittori francesi hanno parlato della Francia multietnica: Jean Claude Izzo, Daniel Pennac e Fred Vargas, solo per citare i più famosi. Gary è stato il primo e il suo è “un romanzo toccato dalla grazia”.
Pensiamo a come deve essersi sentito col suo segreto, quando la rivista Lire ha stroncato la sua opera (quella di Gary) e ha concluso scrivendo: “Ajar è decisamente un altro talento”.
Gary contro Ajar, “brucio” e “brace”: questo è il significato dei due pseudonimi in russo.
Resta da dire che questo romanzo è scritto benissimo (io l’ho letto in francese). E’ pieno di umorismo e poesia, ma è anche crudele. Fa ridere e fa piangere. Parla della vita e della morte. Il punto di vista è quello di un bambino che racconta in modo semplice e senza pregiudizi. Un bambino circondato da prostitute, alcolizzati e tanta povertà.
Ma è anche un inno alla vita perché Momo, che pure vive in condizioni terribili, sembra cogliere sempre l’aspetto vitale e positivo: non si compiange e cerca di salvarsi, aggrappandosi disperatamente a quanto di buono la vita gli offre.
Ed è una dichiarazione d’amore per la vecchiaia. E’ strano sentir parlare con tanto amore dei vecchi. Con tanto rispetto. Si fa il paragone con le tribù africane che tengono in grande considerazione gli anziani, mentre lì sono dispersi nei grandi palazzi della città in una dimensione che non fa per loro. I sei piani di scale sono la prova di questa follia che vuole che i vecchi vivano “nei loro nidi di polvere”.
Madame Rosa e il signor Hamil che “la natura fa crepare a fuoco lento”, attraverso gli occhi di Momo si trasfigurano: diventano belli, preziosi, indispensabili e scoviamo la bellezza in mezzo alla loro vecchiaia.
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