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La voce del narratore

Da Marcofre

Interessante notare come Tolstoj abbia avuto con i suoi romanzi un rapporto che definire complicato, non rende bene l’idea. Sembra infatti che li abbia spesso ripudiati.

“Guerra e Pace”, “Anna Karenina”, non erano storie riuscite, a suo dire. Ennesima dimostrazione di come un artista non sia affatto una persona che sa, conosce, in dialogo quotidiano con le Muse.

Bensì una persona che si interroga, pensa, studia, riflette. E spesso è insoddisfatto.

Buona parte dei critici concorda nel ritenere la produzione “minore” di Tolstoj essenziale per comprendere il suo cammino di scrittore. Per “minore” si intende le fiabe, i piccoli racconti, gli scritti sociali o politici.

Erano il suo modo per cercare un modo nuovo di scrivere. Dove la voce del narratore fosse finalmente assente, e parlassero i fatti. Come succedeva nei romanzi di Dostoevskij, dove ciascun personaggio aveva una voce distinta, e soprattutto lontana da quella del suo autore.

Esatto, il celeberrimo cammino dello scrittore. Uno dei motivi per cimentarsi anche con situazioni nuove, è che in questa maniera si comprende la propria forza. Non è detto che si debba a ogni costo scrivere di tutto, passare perciò da un genere all’altro.
Alcuni ci riescono, altri lo fanno con risultati discutibili.

L’impegno che la scrittura richiede è spesso sottovalutato. Viene il momento nel quale, se non si è diventati troppo schiavi dei salotti, ci si chiede il senso dello scrivere. Del modo scelto per farlo. È quello giusto? Oppure no?

Tolstoj ebbe per Anna Karenina parole durissime. Non era soddisfatto di nulla. Detestava probabilmente se stesso, quel se stesso che si infilava un po’ dappertutto, mentre lui avrebbe desiderato restare dietro le quinte.

Vero. Forse è meglio scrivere e basta. Non infarcirsi la testa di problemi e quesiti. Ma come si fa?

 


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