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La volpe e il vasaio

Creato il 04 dicembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da robertoplevano su dicembre 4, 2011

La volpe e il vasaio

Avvenne che un giorno il vasaio si apprestò a foggiare una nuova forma. Dispose sulla ruota una massa di terra grassa, pesante di umidità, screziata del colore del sole e della luna, gli astri più prossimi. Mescolò in quella pasta alcune scaglie del corno dell’ariete, poche manciate di grano, e prese a premere, appiattire, maneggiare, girare, rigirare, livellare, appuntire e arrotondare. La materia così plasmata fu dapprima difficile da modellare e non riteneva le fattezze appena impresse dal vasaio, ma le mani continuarono il lavoro: le parti secche furono ammorbidite con lo sputo, le parti troppo umide furono rinsecchite con il soffio. La nuova forma venne finalmente a essere secondo le intenzioni del vasaio.
Era una sostanza tenera, mutevole, e tuttavia riteneva l’aspetto abbastanza a lungo da essere stabile nel tempo e rimanere nel ricordo. Era un corpo che in ogni sua parte si accorgeva con grande meraviglia di tutte le innumerevoli differenti cose intorno, e da esse era allietata o rattristata, e da esse sempre era mossa. Con il contatto il corpo riconosceva il ghiaccio e il fuoco, l’umido e il secco, il molle e il duro, il liscio e il ruvido, e le molteplici variazioni e combinazioni delle qualità, e a esse si adattava o si opponeva. Pativa infine i movimenti delle stelle lontane, dalle quali al tempo stesso era segretamente attratta.

Il vasaio vide che la nuova forma poteva davvero fare il mondo più bello e più ricco. Allora si propose di donare alla forma alcune delle virtù che egli usava nelle sue opere. Acconciò il suo corpo estendendo alcune parti, così che toccassero la terra e lo potessero muovere. Altre parti si allungarono per tastare tutto ciò che la forma desiderava toccare, per prendere e per dare, per premere, per stringere a sé, e per protenderle infine verso il cielo. Ma ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante il semplice contatto possa accertare. Allora il vasaio intese dare alla nuova forma le facoltà di gustare il dolce e l’amaro, per stabilire che cosa fosse nutrimento, e quella di fiutare l’aria salubre e malsana, e quella di avvertire i suoni dei viventi, e del vento e delle nubi, e le acutissime armonie delle costellazioni, che non si muovono nel silenzio. Infine il vasaio si propose di dare alla forma la facoltà di percepire la luce e il timore della sua mancanza, perché così non avrebbe voluto conoscere nulla di ciò che esiste nel buio. Ma per dare seguito a queste intenzioni occorreva aggiungere altri impasti al corpo formato. Era ormai già notte e il vasaio si propose di continare il lavoro il giorno seguente. Annodò le estremità della forma e fermò i lembi con una borchia al suo centro, stese sopra un panno bagnato e si ritirò.

La volpe aveva osservato il lavoro del vasaio nascosta nell’ombra. Aveva atteso la notte per rubare la nuova forma e divorarsela al sicuro nella sua tana. E così fece: strinse tra i denti il corpo lasciato dal vasaio sutto il panno e balzò via rapida urtando la ruota, che uscì dal suo asse, cadde a terra e si ruppe. Giunta infine nella tana, la volpe si preparò al pasto. Prima di affondare i denti nelle parti tenere del corpo, rimirò con occhio rapace e famelico la sua preda. Quel corpo cieco e indifeso tremava, fremeva, scosso dal freddo, dall’impronta dei denti, avvertiva in qualche modo il tocco del buio e della fine imminente. Allora la volpe si trattenne. Pensò alla sua tana segreta, alle rapine furtive, alla sua vita guardinga nell’oscurità. Pensò che di quel corpo poteva fare un servo, che avrebbe sorvegliato la tana, e che avrebbe anche imparato a cacciare per lei, a rubare, a uccidere alla luce del sole. Così non lo divorò e cominciò invece a istruirlo.

La forma tuttavia doveva essere condotta a ogni passo. La volpe sosteneva le sue estremità, le accompagnava ovunque era necessario, reggeva il corpo incapace di trovare da sé la direzione. Confinata al contatto con il suolo e con i margini delle cose, la forma non imparava nulla e non era di alcuna utilità. La volpe comprese allora che quel corpo non era davvero finito, non poteva rimanere così e aveva bisogno di altre facoltà in aggiunta a quella di sentire le cose al contatto. Ma la volpe non aveva le abilità per provvedere a ciò: non avrebbe saputo inserire nuove virtù in quel corpo già formato e disposto dal vasaio alle attitudini a cui il corpo era destinato. Né intendeva restituire il corpo al vasaio per finire il lavoro, perché la volpe non rende mai ciò che ruba, e nulla più poteva essere messo sulla ruota fracassata.

La volpe tuttavia aveva ormai un tale bruciante desiderio di avere un servo che pensò di completare lei stessa la forma, e che non era necessaria per questo la perizia del vasaio. Non sapendo modellare l’impasto, prese allora la pelliccia strappata allo sciacallo e fece con essa un piccolo globo. Attaccò il globo al corpo della forma con un pezzo di carne cruda, e trapassò più volte il globo di pelliccia con un punteruolo, così come aveva visto fare al vasaio con certi globi di terracotta, in cui lui soffiava dentro e quei globi emettevano suoni come di uccelli, e confondevano la volpe. In questo modo, pensò la volpe, finalmente la forma si sarebbe accorta di tutte le cose vicine e lontane, della loro estensione e delle infinite qualità, perché attraverso quei buchi le cose avrebbero trovato una loro via dentro di essa. Pose due conchiglie di mare accanto ai buchi ai lati opposti del globo, in modo da raccogliere i venti e le arie e le voci dei viventi. Scavò una cavità sotto due buchi fatti al centro del globo, così da trattenere in essa e fiutare l’aria salubre o malsana. Dispose piccoli sassi bianchi e ossa sminuzzate dentro il buco più grande, appena sotto i due buchi del fiuto, così che ogni nutrimento entrasse nella forma e fosse convenientemente macinato. Infine… infine la volpe volle che la forma percepisse la luce attraverso i due piccoli buchi più lontani dal grosso del corpo. Ma la luce non penetrava nelle sottili fessure. La volpe allora escogitò uno stratagemma per catturare la luce e imprigionarla nei buchi. Sul letto del torrente trovò due pietruzze colorate, lucide e trasparenti, che parevano scintillare nella notte alla luce delle stelle più lontane. La volpe pose le pietre sulle due piccole fessure ed esse presero a brillare.

Il corpo della forma era così completato. E prima ancora che la volpe desse il primo ordine, accadde che il corpo si pose ritto e cominciò a scrollare qua e là e ad agitarsi, e la volpe fu presa da una grande paura, perché dal buco più grande del globo uscivano fuori mormorii e uno strano crepitare che ricordava, ma appena appena, il vento quando agita le foglie in autunno. Quel buco era stato fatto per il nutrimento, in esso dovevano entrare cose, non uscirne. E quel rumore che veniva fuori… ricordava il vento ma era nuovo, pareva una fatica di voce e di carne, ma non diceva dolore e sofferenza, piuttosto uno scherno, un disprezzo, un insulto… Un grande piacere per la forma, una grande minaccia per la volpe. La forma si era levata, aveva visto la volpe davanti a sé, il mondo intorno, e aveva riso. La volpe seppe di essere soltanto una volpe, e seppe che sarebbe sempre scappata davanti a quella forma malconcia da lei stessa finita.

Da allora la forma tiene in gran considerazione il globo di pelliccia a lei attaccato, per mezzo del quale ha potere sulle cose. Il vasaio però non riconobbe nulla di suo in quel composto di parti così diverse, e non si interessò più alla sorte della forma. La volpe continua a uscire dalla tana soltanto di notte, e fugge la vista degli uomini.


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