E’ tale la confusione a due settimane dal voto che lo scenario politico non è minimamente configurabile.
Non è chiaro, infatti, quale sarà la natura del governo che si insedierà con la nuova legislatura e chi sarà il Presidente del Consiglio.
Come era prevedibile, le ipotesi si rincorrono: dalla possibilità di un incarico affidato dal Capo dello Stato al segretario del Pd alla possibilità di un nuovo governo tecnico di transizione – scopo per elaborare una nuova legge elettorale che ridia nuova linfa alla rappresentanza parlamentare eliminando la prassi invalsa delle nomine imposte dei parlamentari attraverso le liste bloccate e la previsione di un premio di maggioranza che non ha sconsolatamente esempi equiparabili in Europa.
Quattro sono, ad oggi, le forze politiche in Parlamento: Il Pd, il Pdl, la lista civica di Mario Monti, la cui carica di Presidente del Consiglio potrebbe essere oggetto di prorogatio secondo le ipotesi di governo che il Presidente della Repubblica dovrà vagliare in vista delle future elezioni, ed il M5s.
Quest’ultimo, a mio avviso, ha perso la grossa occasione di dare un esempio di responsabilità politica ripagando i propri elettori per gli otto milioni circa di voti ottenuti.
Appoggiare un quadro di riforme a marchio “governo – Pd” avrebbe consentito di operare un controllo di equità sulle modifiche più urgenti nel quadro politico – istituzionale ( legge elettorale, rimborso elettorale ai partiti, numero dei parlamentari etc ).
Grillo, arroccato sulle proprie posizioni, non ha consentito, e non consentirà presumibilmente, a questa apertura che sarebbe stata interessante.
Da sempre il portavoce dei “grillini” accusava la casta di essere autoreferenziale e scollegata dal paese reale. Così facendo, a mio avviso, ha aperto il portone della torre d’avorio nella quale è invece entrato proprio il comico.
Ritengo che la mission genetica voluta dagli ideologi del M5s sia quella di essere una forza politica perennemente all’opposizione la cui volontà sarà quella di esaminare l’operato delle altre forze parlamentarie e di governo senza essere attore attivo nello scenario politico. Soluzione, questa, difficile da attuare in una moderna e plurale democrazia.
Il Paese intanto vive la fase più acuta della crisi economica. I suicidi, i tagli ai servizi, lo smantellamento programmato del sistema del Welfare State e la disoccupazione dei lavoratori maturi come dei giovani che dovrebbero entrare nel mercato del lavoro.
E’ più che mai di attualità il lavoro proposto da Federico Rampini «Non ci possiamo più permettere uno stato sociale». Falso!, edito da Laterza.
“Molti si sono convinti che il nostro welfare è un lusso, che mantenendo certe conquiste sociali abbiamo "vissuto al di sopra dei nostri mezzi", e che è ora di ridimensionarci. Ma siamo sicuri che sia l'unica alternativa possibile? Siamo davvero sicuri che l'Europa è in declino perché statalista e assistenziale? Chi lo ha detto che lo Stato sociale deve essere smantellato?”.
Rampini, scrittore e giornalista di successo, vive da diversi anni in California e l’esperienza professionale fatta gli ha permesso di introdurre immediatamente il lettore ad una comparazione "punto per punto" dei due opposti paradigmi di Welfare: quello americano - come vuole una vulgata di grande successo - è sicuramente un modello più efficiente di quello europeo, che in questi mesi drammatici sta mostrando la corda e confessa tutta la sua inadeguatezza di fronte alla storia.
A fronte di una pressione fiscale solo leggermente inferiore a quella cui sono sottoposti gli europei, moltissime sono le rinunce imposte al contribuente (e quindi al cittadino) americano. Sanità e istruzione su tutto, com'è noto.
Ma anche i trasporti, con una rete ferroviaria carissima e poco efficiente e - soprattutto - un sistema pensionistico drammaticamente inadeguato.
Pensare, pertanto, ad una riforma di carattere europeo di matrice keynesiana sarebbe auspicabile se realmente ideata e voluta nella direzione di un efficace presenza sociale dello Stato per ridare equità nella ridistribuzione dei servizi e delle risorse riducendo la forbice tra le impresentabili ricchezze accumulate da pochissimi e lo stato di povertà invereconda in cui moltissimi sono sprofondati.
Tornando al Pd, ed agli otto punti proposti da Bersani per un Governo di cambiamento si segnalano le misure contro l’austerità, la riforma sociale del lavoro, giustizia, equità, ineleggibilità parlamentare e conflitto di interessi, economia verde e sviluppo sostenibile, istruzione e ricerca.
Il tutto ha molto a che fare con un rilancio dello stato sociale. Potevamo permettercelo, forse, se l’appello alla responsabilità ed ad un controllo vigile fosse stato colto dalle forze politiche.
Cristian Curella