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Laboratori di design

Creato il 22 febbraio 2012 da Upilmagazine @UpilMagazine

La parola Design indica oggi tante cose a volte ottime a volte pessime, a volte utili a pochi a volte utili a molti, a volte furbe a volte poetiche, a volte con risultati utili ad alcuni a volte con risultati utili ad altri: è logico che sia così in quanto è una parola che indica attività multiformi che attraversano vari ambienti e varie pratiche e ha dunque in sé qualità, difetti e contraddizioni.

La mia generazione si è formata studiando architettura in genere (ma non proprio tutti comunque) e ha fatto design partendo da lì; nelle nuove generazioni di designers gli architetti sono una minoranza mi pare e il design ha acquisito più “oggettualità” (intesa come qualità dell’oggetto in sé in quanto pensato e realizzato a prescindere dai suoi rapporti con la storia e con l’architettura).
Se pensiamo alla caffettiera la “cupola” di Aldo Rossi, abbiamo un grande esempio dell’oggetto di design figlio dell’architettura e, in effetti, era nato dal “piano urbanistico” diretto da Alessandro Mendini per Alessi “Tea & Coffe piazza”.

Pare che ormai questi oggetti “da architetti” siano destinati ad un mercato di nicchia (e in pratica lo sono sempre stati in quanto appunto da architetti o da innamorati dell’architettura) perciò per allargare il mercato le aziende di design “pescano” in altri mondi e altri linguaggi per fare un design che sia più vasto della nicchia dove è nato.
La questione che si pone oggi è quindi la seguente: in questo “mare magnum”, dove il design adesso si trova, si possono individuare e fissare nuove gerarchie di “qualità”, nuovi codici e regole del gioco affinché chi opera in questo settore, in uno qualsiasi dei ruoli utili al “sistema” design, possa parlare una lingua comune con gli altri per trovare sinergie e raggiungere nuovi obiettivi?
Oggi l’esperanto che ci permette di comunicare tra noi e di individuare gerarchie e scale di valori è dettato principalmente dal mercato esistente: un prodotto di design che ha successo e che diventa un best-seller è sicuramente un progetto riuscito in quanto ha individuato o addirittura anticipato a volte i desideri simbolici o pratici del mercato, situato in più paesi possibili, con un buon equilibrio tra il suo prezzo e il servizio simbolico o pratico che fornisce al suo fruitore.
Molte aziende che producono e vendono operando nel design e nel fashion design (vendendo quindi anche il mondo simbolico che questi oggetti evocano) agiscono come copiatori, più o meno raffinati, dei best-seller altrui in una sorta di pronto-moda che vale per l’abbigliamento ma anche per l’arredamento; le aziende leaders “design oriented” vantano innumerevoli tentativi d’imitazione e conoscono bene questo fenomeno (come sappiamo che succede alla settimana enigmistica!).
L’urgenza attuale per le aziende quindi sta proprio nell’individuare nuovi percorsi sani, attuali, veri e soprattutto capaci di lanciare nuove “estetiche” e nuove “etiche” e quindi di creare nuovi mercati oltre a penetrare quelli esistenti.
Una delle strade (e in ogni modo è una di quelle che interessa a me) è quella del prodotto local/global, vale a dire tipologie tradizionali e locali rese maggiormente “ intelligibili” al di fuori della propria nicchia di riferimento, grazie ad un opportuno redesign o attualizzazione delle funzioni.
Com’è successo in ambito musicale con la world music, questo tipo d’approccio permette un salutare e sensato ancoraggio nella storia ma nello stesso tempo un’impollinazione incrociata di culture e linguaggi che attraversa il designer, l’azienda, il mondo tradizionale e artigianale in cui l’oggetto è nato e il fruitore finale; se questo scambio riesce bene i risultati possono, a mio avviso, andare lontano e creare nuovi paesaggi validi.
Nel mercato globale di oggi io penso che ogni approccio (come quello appena citato) che si ponga allo stesso tempo il problema dell’identità culturale del binomio progettista/azienda e del “mondo" dove questo binomio vive e il problema della sua lettura da parte di un mercato sempre più vasto e multiforme è sicuramente un approccio valido e che dà risultati di senso e commerciali.
La cosa importante, è non perdere il senso e il piacere di fare design e cercare, ognuno in base al ruolo che ha, di lavorare per progetti brevi, medi ma anche lunghi in modo da seguire strade che abbiano sbocco e che creino futuri stabili.
Le aziende e i progettisti necessitano sempre di più oggi di laboratori di progetto con un approccio culturale ma anche mercantile in quanto anche il mercato è cultura; riunendosi e lavorando in questa maniera si permette ai progettisti e all’azienda di creare insieme dei piccoli “Bauhaus” meta-progettuali e anche progettuali dove è probabile che si individuino dei germogli da fare crescere in seguito.
È a mio avviso un po’ insensata invece la pratica che consiste nella proposta da parte di noi progettisti e nella selezione da parte delle aziende di progetti pressoché conclusi e isolati che casualmente possono, per vari motivi, interessare le aziende e quindi essere prodotti (anche se è comprensibile che si operi così a volte in quanto un’efficacia a breve termine c’è spesso); ma a medio e lungo termine quest’approccio diventa sterile e ripetitivo e non crea scenari e futuro per nessuno.
In altre epoche cosiddette d’oro del design, dove però il mercato era sicuramente più ristretto e di nicchia di oggi, la valenza simbolica e culturale e per conseguenza mercantile degli oggetti di design e delle “collezioni” in cui erano inseriti e proposti al mercato era una certezza e un valore di marketing efficace.
Oggi la situazione è cambiata in quanto il mercato si è potenzialmente allargato e spostato in altri territori e linguaggi dove la “cultura” del design è solo uno dei linguaggi possibili e neanche il più importante.
Secondo me, sulla base dell’ampiezza e della diversità dei nostri nuovi interlocutori potenziali, appare l’urgenza oggi di creare un nuovo metodo, un nuovo senso e nuove scale di valori e di qualità del nostro operare, in accordo tra noi progettisti e le aziende, affinché con un approccio “sensato” e strutturato si generino oggetti abitati ed efficaci posizionati su uno sfondo leggibile dal fruitore che funga da riferimento e da segnale d’identità chiara, che sia culturale o anche solo simbolica o emozionale (forse a breve questo “sfondo” non si chiamerà più design ma, aldilà della sua denominazione e delle sue caratteristiche è assolutamente necessario per agire in maniera strutturata e costruttiva a medio e lungo termine).
La produzione di un’azienda, ma anche di un progettista, deve essere oggi differenziata, di ricerca ma anche in presa diretta col mercato presente o futuro, perciò molti approcci sensati e quindi, per conseguenza diretta, “etici” e con un’anima, possono e devono coesistere, anche aldilà di quello che finora abbiamo chiamato design, stile o linguaggio.

 

Tuttavia affinché i prodotti parlino e si facciano ascoltare e non restino posizionati in una “oggettività” solitaria che ha più o meno successo secondo i casi e le circostanze, è necessario che i progettisti, le aziende e chi opera in quest’ambiente, producendo, scrivendo, comunicando o commerciando, ri-facciano parte, per quanto è possibile e in maniera ovviamente diversa dal passato, di un “mondo” con le sue regole, con i suoi valori e con i suoi simboli, visibili dall’esterno.

Se, grazie ai laboratori strutturati tra progettisti e aziende, disegnamo, realizziamo, comunichiamo e commerciamo con alla base quest’approccio analitico e lucido, ma anche umanista, generoso e identitario, il mercato ascolterà di più perché i nostri messaggi saranno più chiari e rapportabili, direttamente o indirettamente, da chi li fruisce ad un “ambiente” preciso che li ha generati.

Pierangelo Caramia
Architetto e Docente di Design alla École des Beaux Arts di Rennes
 


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