In “Déjà vu” Paolo Pappatà non racconta. Dà voce, con linguaggio poetico, a stralci di immagini vaganti nella mente, una sorta di flusso di coscienza dove l’onirico, l’inconscio, si mescolano al ricordo.
Non ha interlocutori, il protagonista parla a se stesso, e la figura dell’amico appare soltanto un alter ego contrapposto, non risponde, ma fa domande, poi … neanche quelle: guarda perplesso. Una solitudine di maschi snervati, abbandonati nei bar da donne che vogliono di più e per questo non danno più niente. E dunque siedono in silenzio davanti a una birra che non finisce mai, che diventa sempre un’altra birra. Finché uno dei due non se ne va, quello che almeno una vita, una donna, l’ha ancora. L’altro rimane col suo sorriso imbarazzato, con la sua erezione flaccida, con la sua immaturità congenita.
È un aggrovigliarsi di emozioni, percezioni recitate senza trama, in sequenze che non hanno nessi temporali, spaziali. La storia è tutta nel titolo, in quel “déjà vu” che rotola ossessivo nella mente: il già stato, il già vissuto, non dà illusioni; conduce alla conclusione amara, che, pur se “le stagioni possono anche tornare quelle di una volta”, quando l’amore è tra “un riccio di mare e un porcospino”… è una “questione di spine”…e resta solo da ragionare sulla “estinzione delle stelle nel cielo”.
Una lingua studiata, quella di Pappatà, dove la poesia a tratti lacera la freddezza e straripa:
“Eravamo piccoli animali, in fondo delle bestie, e non serviva sapere chi alloggiava sulla terra o chi nel profondo del mare. In fondo avevamo tutti e due il cielo sulla testa e le nuvole quando passavano c’erano per tutti e due.”
Patrizia Poli e Ida Verrei
Trovate il racconto nell’archivio del Laboratorio di Narrativa.