Laos, paese lontano, garbato e sorridente
L’antico regno dei mille elefanti
Terra di montagna e di fiumi
Culla dell’immenso e drammatico Mekong
Meta del nostro viaggio di nozze
Arriviamo a Vientiane, la capitale, dopo un interminabile volo intercontinentale.
Un tempo famosa per le fumerie d’oppio e per i numerosi bordelli, oggi è una capitale anonima e sgangherata che conta circa 260.000 abitanti
L’architettura è una commistione di diversi stili dovuti al susseguirsi di contingenze politiche: edifici sovietici e in stile coloniale francese si confondono con case dalla foggia cinese, costruite con il negozio sulla strada e l’abitazione al piano superiore.
Il principale monumento della città, simbolo della nazione è il Pha That Luang è una costruzione religiosa interamente rivestita di lamine d’oro. Fu fatto edificare da qualche imperatore nella seconda metà del 1500 sopra uno stupa del terzo secolo che custodiva i resti dello sterno del Buddha.
Sul lato opposto vigila il Patuxai, una specie di arco di trionfo che campeggia su una sorta di Champs Elysee. Da lontano sembra una struttura interessante ma da vicino è decisamente meno suggestiva.
Dalla sommità dell’arco però si gode un panorama suggestivo di tutta la città.
Al nostro arrivo, il lungo-fiume di Vientiane è completamente in costruzione: quello che era una placida passeggiata per famiglie e fidanzati, ora sarà un altrettanto placida piazza d’armi con cantieri, giardini, giochi d’acqua e baracchini di cibo squisito.
Proseguendo verso sud per circa 20 km, è d’obbligo una visita al Parco del Buddha – Xieng Kuan – un estroso quanto unico giardino a tema religioso.
Fu costruito dalle mani dell’architetto artista sciamano Bunleua nel 1958, che a quel tempo godeva di grande fama e di numerosi seguaci. Le sue mescolavano iconografia e mitologia induista al buddismo theravada.
la grande zucca – simboleggia il passaggio all’aldilà
Prima del sorgere del sole, i giovani bonzi dei monasteri di Luang Prabang escono per la processione dell’elemosina – la questua detta Tak Bat.
Raccolgono offerte in cibo e denaro necessarie per il mantenimento del monastero.
La catena arancione è uno spettacolo imperdibile: i cantilenare dei mantra e lo spargimento d’acqua, benedicono i devoti e le loro piccole botteghe.
La vita in Laos è scandita dalla dottrina del buddismo theravada che si fonda sui principi di Sofferenza, caducità e inconsistenza della quotidianità e sulla collettività:
“se tu non sei felice, nemmeno io lo posso essere”.
La religione è radicata al punto che, durante i bombardamenti americani della guerra del Vietnam, i devoti laotiani non si domandavano quali fossero i motivi della guerra, quanto piuttosto, cosa avessero fatto di male per meritarsi una bomba sulla casa. (si, alcune zone del Laos sono state le più colpite di tutto il conflitto, come dimostra Phonsavan)
A Luang Prabang è possibile visitare il Wat Xieng Thong, il più grande monastero del Paese risalente al 1560 circa. Ogni wat (e disseminati in tutto il Laos ce ne sono davvero tanti) includono il centro monastico, le cappelle di preghiera e gli alloggi per i monaci e i novizi.
La visita dura circa un’ora ed è possibile passeggiare tra stupa e cappelle votive che racchiudono sinuose statue del Buddha (un Buddha disteso in bronzo, particolarmente bello, in perfetto stile laotiano, è conservato nella cappella rossa)
Sulla pagoda principale, nello stile tradizionale (che tradotto dignifica “bouquet di fiori del cielo”) è possibile ammirare i meravigliosi tetti spioventi adornati di draghi e lance ornate di parasole.
Trascorrere almeno 3 mesi in monastero è una consuetudine del buddismo: molti ragazzi vestono la tonaca arancione per brevi periodi, spesso il pansaa, la quaresima buddista.
Luang Prabang è affascinante e delicato.
Costruita su una penisola tra due fiumi e affacciata ad un’ampia ansa del Mekong conta oggi circa 20.000 residenti.
Conosciuta un tempo come la città del Buddha d’oro venne saccheggiata e rasa al suolo nell’800 dalle bande nere, evasi dall’esercito cinese e ricostruita dai colonialisti francesi che la trasformarono in una piccola capitale dell’Indocina.
Fu proprio durante il colonialismo ad assumere l’aspetto attuale, quando il protettorato fece costruire dai propri architetti europei edifici in mattoni, prendendo a lavorare maestranze vietnamite che usarono materiali tipici cinesi.
Dalla commistione nacque il tanto apprezzato stile coloniale francese.
L’arte della tessitura (importata nell’800 da alcune famiglie cinesi) è ancora praticata in questa regione anche grazie allo sforzo di una Fondazione che ne tutela la salvaguardia.
I materiali utilizzati sono quelli che crescono naturalmente nel territorio come cotone biologico, seta e canapa indiana.
I tessuti tradizionali sono usati principalmente per i vestiti da cerimonia, matrimoni in generale.
Fino a pochi anni fa tutte le ragazze da marito erano tenute a tessere da sole la propria dote che consisteva in 40 cuscini da pavimento, 12 materassi, 2 lenzuola in lino e 2 tovaglie di seta.
Per la preparazione erano necessari 12 mesi: un lavoro lungo e preciso per mani esperte e veloci
Stanchi del turismo (pacatao) di cui Luang Prabang è sopraffatta, ci dirigiamo alla volta dei popoli delle montagne.
Destinazione Phongsali, una sorta di grande villaggio isolato in alto tra le montagne al confine con la Cina, in cui calma e tranquillità rappresentano i beni più preziosi della vita.
Non ci sono reti ferroviarie in Laos, quindi i nostri trasferimenti sono affidati tutti agli autobus locali.
Come su tutte le strade sterrate del mondo, lungo la strada che conduce a Phongsali vige la legge del più grosso. Camion e autobus quindi la fanno da padroni.
Un giovane trio di autisti poco più che maggiorenni si danno un gran da fare a guidare una malconcia corriera indiana che necessita di continue manutenzioni.
Per non perdere tempi i rabbocchi di acqua al radiatore vengono fatti al volo, nei rari trattai di strada pianeggiante. Teoricamente basterebbero 10 ore per raggiungere la nostra destinazione ma non è mai così. Durante il viaggio può capitare di tutto, ma disagi e ritardi sono accettati senza rimostranza, in nome della proverbiale serenità laotiana.
Lo staff dei meccanici sa perfettamente come risolvere ogni contrattempo: è bastato un filo di ferro e qualche elastico per risolvere un problema al cambio (o alla frizione non mi è stato molto chiaro).
La strada è in rifacimento e presto sarà asfaltata per opera di società cinesi, come la maggior parte delle strade in questa parte di Asia d’altronde.
Comincia a piovere quando inizia la discesa: gli autisti, con innate capacità rallystiche, hanno fretta di arrivare e si lanciano a tutta birra verso improbabili stradine fangose facendosi largo a suon di clacson (che invece quello non si rompe mai!) verso la viscida interminabile discesa che porta in fondo alla valle.
Arriviamo di sabato.
L’ufficio del turismo è chiuso quindi se vogliamo organizzare dei trekking dobbiamo come sempre adottare la tecnica dell’arraggiarsi.
La vera difficoltà con popolazioni così arretrate è la comunicazione, così ci conducono da Joey, un giovanissimo ragazzo che sogna di diventare maestro e insegnare ai bambini dei villaggi più remoti.
Con Joey organizziamo un trekking fino alle piantagioni di the più alte (e forse anche antiche) del mondo
Con delle moto sgangherate percorriamo tratti di una lussureggiante foresta pluviale che si erpica per oltre 2500 mt di altezza. Un luogo di natura primordiale, dove interi villaggi vivono isolati in alto tra le montagne ai confini con la Cina.
Nessuna strada.
In questi regioni settentrionale il tempo sembra essersi fermato.Sono così remote da essere state risparmiate persino ai bombardamenti.
Sotto una pioggia fitta ma leggera raccogliamo per circa 6 ore il the con le donne dell’etnia che non ricordo e lo portiamo al capo del villaggio che si occuperà della vendita.
Le vecchie raccoglitrici sono stupite dalla mia incapacità al punto di riempirmi il sacco con il loro raccolto per non farmi sfigurare.
Mentre il capo villaggio controlla la qualità e pesa il nostro raccolto ci ospita per una tazza di the…
(quando si dice essere sul pezzo – ndr.)
Inutile dire che probabilmente siamo gli unici turisti e ciò desta una certa curiosità.
In questo posto, che non ha nemmeno un nome, non ci resta che osservare.
Nel villaggio appare ancora ben radicata la suddivisione dei compiti maschili e femminili: così, mentre i bambini giocano con i loro rudimentali trottole, le bambine svolgono i lavori domestici, anche i più faticosi;
le donne indossano i costumi tradizionali e si adornano la testa e le braccia di monili fin da giovanissime.
Le più riconoscibili sono quelle delle tribù Aka, sfarzosamente agghindate con ingombranti copricapi, con complessi pendagli di maglie intrecciate e monete francesi del periodo coloniale e vecchie rupie indiane.
Qui la vita scorre senza fretta, in una tranquilla – fatalistica – esistenza che sembra non prevedere alcuna ansia per il futuro.
La vita inizia alle prime luci dell’alba, con le donne che si occupano dell’acqua e di preparare il riso glutinoso per la colazione e finisce al tramonto, con le sere nel villaggio che scorrono lunghe e monotone.
Come ormai in quasi tutti gli angoli remoti del Pianeta, sono arrivati generatori e antenne satellitari.
E subito i giovani si sono adeguati alle mode dettate dalla TV iniziando quasi a vergognarsi dello stile di vita tradizionale e dai discordi dei loro vecchi. Difficile immaginare che la tradizione si perpetui anche nelle generazioni future, cresciute nel mito universale della tv.
Aspettando che spiova, attorno al fuoco della casa, Joey ci racconta i suoi sogni di maestro.Conosce l’inglese e lo vuole far imparare alla sua gente, per dare loro un futuro, soprattutto in vista dell’avvento cinese.
Gli raccontiamo di essere in viaggio di nozze. Gli si illuminano gli occhi, come solo ai puri può succedere, mentre ci racconta della sua fidanzata giù in città. E che sposerà. Prima o poi.
Ci insegna la canzone, inno di Phongsali, la città tra le nuvole.
Scorre come una fluida autostrada per oltre 450 km, il Nam Ho, l’unico fiume (letteralmente fiume a scodella di riso) completamente navigabile del Laos.
Scorre da Phongsali fino a Luang Prabang dove si immette nel grande Mekong la madre di tutte le acque.
Ogni giorno centinaia di lavoratori lo attraverso a bordo di lunghe piroghe motorizzate per svolgere le funzioni della vita quotidiana.
Ma la storia del Nam Ho sta ormai per conoscere la propria fine: società cinesi hanno vinto l’appalto per mettere sbarramenti e dighe lungo tutto il fiume. Serviranno a produrre energie elettrica per il vicino distretto cinese.
Le nuove strade e ponti serviranno alle nuove compagnie di taglio del legname sempre cinesi di arrivare con i loro bulldozer. Presto tutto sarà radicalmente modificato.
Decidiamo però di ripartire alla volta di Vang Vieng in autobus.
sul bus, siamo seduti sopra quintali di riso.
Se il viaggio in andata fu strepitoso, quello del ritorno si è rivelato decisamente inusuale.
A circa metà del tragitto, apparentemente senza motivo, il traffico si blocca.
E’ notte fonda e, conoscendo la proverbiale flemma laotiana, trovo giustificabile che l’autista si faccia un pisolino.
Ma dopo qualche ora, alle prime luci dell’alba, mentre tutti restano placidamente a sonnecchiare e mangiare, decido di capire cosa possa essere successo.
Mi dirigo verso la testa del convoglio di mezzi in attesa e … colpo di scena
Una frana ha bloccato la strada.
Quintali di terra rossa e viva sono riversati sulla strada. Ci vorranno ore e ore prima che i mezzi vengano a liberare il percorso.
Mentre gli altri passeggeri sembrano incuranti del ritardo e ciondolano la testa dicendo “big problem, big problem”
Convinco Davide a scavallare a piedi la frana e a fare l’autostop fino in paese.
Durante il passaggio vediamo degli insetti giganti da colori sgargianti: millepiedi blu elettrico e piccoli varani.
Sono incosciente.
Sono entusiasta.
Inizia l’ennesima avventura a bordo di cassoni di camion di beer lao (orgoglio nazionale), di SUV di diplomatici e pulmini a corta percorrenza.
Il nostro umore è alle stelle: passiamo per risaie desolate in cui nessuno sembra spezzarsi la schiena.
E di uomini (maschi) nemmeno l’ombra.
Ci si apre davanti un paesaggio spettacolare: il fiume Nam Ho ha scolpito gli altopiani centrali del Laos con profonde vallate grotte e picchi di calcare. Falesie nere si specchiano in un’acqua cristallina.
Vang Vieng è il paese dei balocchi.
Tutto scorre lento all’insegno del divertimento.
Sopra grosse camere d’aria, si beve birra pollegiati, cullati dal lento moto del fiume. Questo è il tubing, lo sport nazionale.
Noleggiamo una moto per scoprire i dintorni: a poca distanza si trova il Tham Phu Kham una sorgente famosa per il colore dell’acqua, conosciuta come la laguna blu.
La tranquillità della sorgente unità alla bellezza del paesaggio ne fanno un luogo mistico, sereno, orientale.
Non a caso la vicina grotta di Tham Sang è uno dei luoghi di culto più cari per la gente di Vang Vieng. Iniziamo un viaggio senza mappa alla scoperta di tutte le grotte meno note, e con gran soddisfazione, posso dire di avere trovato dei luoghi incontaminati. Come la grotta del diamante, il cui colore rispecchia fedelmente il nome.
Siamo a 3/4 del viaggio. Non ci resta che scoprire le meraviglie del Sud.
Se fino ad ora il Laos si è presentato lento, a sud tutto è praticamente immobile.
Un vecchio proverbio dell’Indocina recita:
i vietnamiti piantano il riso; i cambogiani lo guardano spuntare; i laotinai lo ascoltano crescere
Molti infatti sostengono che i laotiani siano il popolo più tranquillo e rilassato del mondo.
Lo scopriamo ben presto nel nostro tragitto verso le 4000 islands.
Sostiamo a Champasak che ospita il complesso religioso khmer del What Phu. Le guide lo paragonano ad una Angkor Wat in miniatura, ma della meraviglia cambogiana c’è rimasto ben poco.
Alcuni tempi sono stati restaurati anche grazie al contributo italiano. Misteri.
Nonostante Champasak non abbia nulla di memorabile a mio avviso, ci ha dato l’occasione di alloggiare in una meravigliosa guest house sul Mekong dove abbiamo conosciuto compagni di viaggio eccezionali, oggi amici;
ci ha permesso di annusare a pieni polmoni il profumo del frangipane, fiore simbolo del paese e … di bere il miglior caffè freddo con latte condensato di tutti i tempi.
Si Phan Don, le 4000 isole disseminate lungo 50 km di Mekong, sono un luogo fresco e riposante in cui l’attività principale è quella di dondolarsi sulla amache sorseggiando una beer lao (orgoglio nazionale, ma forse l’ho già detto?)
Qui, contrariamente alle aspettative, il turismo non manca e questo ha comportato un radicale cambiamento nella popolazione locale. (è possibile mangiare anche l’happy pizza, ndr).
L’isola principale è Dan Khong da cui partono i battelli per le escursioni alle cascate Li phi.
E’ ora di tornare.
Prima di partire frequento una seduta di walking meditation in un wat della capitale.
Abituarsi nuovamente ai ritmi italiani sarà dura questa volta.
Il Laos è uno dei paesi più poveri del mondo, agli ultimi posti per quanto riguarda il PIL e l’istruzione.
Il salario mensile di un lavoratore è di 350mila kip, circa 34 euro.
I ¾ della popolazione, quasi tutti contadini, vivono con poco più di un euro al giorno.
Pensiamo a questo e alla feroce avanzata dell’economia cinese mentre ci godiamo l’ultimo tramonto dal tetto del nostro hotel mentre una brezza leggera si alza dal Mekong.
Con l’inchino tipico laotiano – il nop – lo ringraziamo per la sua incommensurabile bellezza.
(http://www.ruzzas.it/laos-terra-montagne-fiumi/)
https://mapsengine.google.com/map/edit?mid=zW8_-ZkEzaFI.klH9UKW3mnAY