Ho conosciuto il poeta Boris Schapiro quest’estate in treno, tornando a Berlino. Senza posto prenotato, ero capitata per puro caso – o provvidenza – accanto a lui. Dal primo momento mi avvolse nella sua aura forte e positiva e mi fece percepire la rara sensibilità con la quale è capace di cogliere e accogliere lo stato d’animo dell’altro. Quasi da subito cominciammo a parlare di poesia. La nostra conversazione smise soltanto al nostro arrivo alla stazione centrale di Berlino. Nelle poche ore trascorse insieme, Boris Schapiro mi ha nutrito bene: di poesie, pane, frutta e saggezza.
Nato a Mosca nel 1944 di famiglia ebrea, la vita del poeta è intrecciata alla feroce storia del XX secolo. Quasi tutta la sua famiglia fu assassinata nelle catacombe di Odessa. Lui sopravvive alla guerra e diventa un matematico. La sua promettente carriera universitaria finisce però a metà degli anni sessanta, nel preciso istante in cui si rifiuta di firmare una dichiarazione che accusa il suo insegnante e mentore di attività controrivoluzionarie. In un’intervista, Schapiro definisce questo momento come una svolta. Nonostante le pesanti minacce da parte del KGB, egli è deciso a difendere la sua dignità umana, consapevole del caro prezzo che avrebbe dovuto pagare. Con lavori umili riesce a tirare avanti fino al 1975 quando, dopo lunghi mesi trascorsi in carcere, gli viene finalmente concesso di immigrare in Germania. Nonostante la salute gravemente compromessa a causa dei trattamenti in carcere, Schapiro è pronto a cominciare una nuova vita, inventandosi quasi da subito poeta anche in lingua tedesca. Nel corso degli anni riscopre le sue radici ebree, trovando in esse una dimensione spirituale che nutre profondamente sia la sua poesia, sia la sua vita.
Oggi vive a Berlino, città delle contraddizioni per eccellenza, come poeta, scrittore, ricercatore, inventore…
Quando ci salutiamo in stazione, sono felice perché dopo tutto, nel ventre di questa grande città insaziabile, incontri del genere, incontri tra uomini e mondi, sono di nuovo possibili. La distruzione e l’annientamento non hanno avuto l’ultima parola. Come nei suoi anni migliori, a Berlino c’è posto per tutte le storie.
VERGANGENHEITSSCHRECKEN
rufen Lügen hervor.
Die Gegenwartslügen
gebären die Schrecken Zukunft.
Mit amputierten Beinen
bin ich auf hölzernen Stelzen
der geile Satyr.
Wo tanzst du,
zärtliche Nymphe?
Mein Flieder ist ausgeblüht,
wahrscheinlich für immer.
Der Duft ist geblieben, der Schmerz,
keine andere Frucht.
Sein oder nicht sein –
die Frage stellt sich
mir immer konkret:
Komplize sein oder nicht,
auch Dieb oder Mörder,
ein Sklave, ein Sklavenhalter,
der Sklavenhalter als Sklave,
als Liebender und als Geliebter,
als Betrüger und als Betrogener,
vor allem als Selbstbetrüger
Selbstbetrogener sein.
Das mußte ich nicht bloß wählen,
sondern erfinden.
Ich durfte es nicht und ich habe
erfunden, erfunden, erfunden,
ich habe es stets getan.
Und hatte den Willen dazu.
Aber den falschen.
Ich wollte ein Dieb sein
und Mörder,
daß alle mich respektieren.
Stolz war ich zu betrügen
und betrog besser als ihr,
bis mein Vater mir sagte,
es ist nur
Selbstbetrug. Ja.
Ich wußte einst nicht,
daß es nicht
selbstverständlich ist, einen
Vater zu haben.
Der Vater sagte,
ich sei sein Spiegel.
Was sieht
er in mir?
Und was ich in ihm?
Lange genug
such ich das richtige Wort
und finde nur eins,
nämlich Liebe.
„Was willst du eigentlich tun?“
fragte der Vater.
„Dein Wille beherrscht dich.
Du bist sein Sklave.
Denke daran.“
Ich dachte daran.
Wie kann ich
den Willen beherrschen?
Wie kann ich das wollen,
was ich wollen will,
nicht nur der Wille in mir?
„Wer seinen Willen beherrscht“,
sagte der Vater,
„der ist
wirklich ein Mensch.
Wenn du es wirst,
dann
bin es gewiß
auch ich“.
31.05.06
GLI ORRORI DEL PASSATO
causano menzogne.
Dalle menzogne del presente
nascono gli orrori futuri.
Con gambe amputate
sto sui trampoli di legno
satiro voglioso.
Dove danzi tu,
ninfa tenera?
Il mio lillà è sfiorito,
probabilmente per sempre.
E’ rimasto il profumo, il dolore,
nessun altro frutto.
Essere o non essere –
mi si pone questa domanda sempre
concretamente:
Essere complice o no,
ladro o assassino,
uno schiavo, uno schiavista,
lo schiavista come schiavo,
come amante e come amato,
come ingannatore e come ingannato,
soprattutto come auto ingannatore,
un essere auto ingannato.
Tutto questo non soltanto dovevo scegliere,
ma inventare.
Non dovevo eppure ho
inventato, inventato, inventato,
senza smettere.
E l’ho voluto.
Ma la mia volontà era errata.
Volevo essere un ladro
e assassino,
perché tutti mi rispettassero.
Ero orgoglioso di ingannare
e ingannavo meglio di voi
finché mio padre mi disse,
tu inganni soltanto te stesso. Si.
All’epoca non sapevo
che era naturale avere
un padre.
Mio padre disse,
che io ero il suo specchio.
Cosa vede lui
in me?
E io in lui?
A lungo cerco
la parola giusta
e ne trovo una sola,
amore.
“Dunque, cosa vorresti fare?”
chiese mio padre.
“La tua volontà ti domina.
Tu sei suo schiavo.
Non dimenticarlo.”
Ci riflettevo.
Come posso
dominare la volontà?
Come posso volere ciò
che io voglio volere
e non soltanto la volontà in me?
“ Chi domina la propria volontà,”
disse mio padre,
colui è
veramente un uomo.
Se tu lo sarai
lo sarò
certamente
anch’io.
31.05.06