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Last Life in the Universe (2003, distribuito da noi in dvd) è una produzione interculturale che vede alla mdp un famoso attore giapponese come Tadanobu Asano, già all’opera in alcuni film di Kitano, Tsukamoto e Miike, quest’ultimo presente nei panni di un mafiosetto della Yakuza, e dietro la mdp la sapiente mano di Christopher Doyle, direttore della fotografia che ha collaborato e collabora spesso con registi orientali.
Tale varietà di persone, culture e credenze, in fondo non influisce su quello che è un argomento rintracciabile in molte pellicole dagli occhi a mandorla degli ultimi 10-15 anni, ossia la distanza che intercorre fra le persone. Se mi chiedeste di fare due esempi vi risponderei subito con l’immagine ripetuta di due braccia tese che si incontrano, le prime in Ferro 3 (2004) e le seconde in The Hole (1998), due istantanee di grande cinema paradigmatiche di questo profondo cruccio che come detto pare interessare non poco molti registi dell’est: quanto sono distanti le persone? Quanto lo sono da loro stessi?
Il film di Pen-Ek non si focalizza soltanto su tale questione ma va a toccare altri due argomenti universali come la morte e, ovviamente, anche l’amore.
So che ad una lettura sbrigativa l’affrontare di questi argomenti potrebbe risultare stucchevole ai vostri occhi, ed anche ai miei. Ma se un po’ avete imparato a conoscermi sapete del peso che per me ha il modo in cui viene raccontata una storia piuttosto che la storia in sé. E Tom Pannet (Ratanaruang si fa chiamare anche così) ha stile, gusto, tocco delicato nell’illustrare la solitudine del giapponese Kenji, una lucertola in cerca di calore, impossibilitato di darsi all’estasi, ovvero alla morte, che non riesce ad afferrare, e che anzi lo sberleffa uccidendo “per colpa sua” una ragazzina che niente poteva.
Anche qui lo sguardo su Kenji non è univoco, egli NON è soltanto l’apatico lettore di libri che non ne vuole sapere più niente dalla vita, ma è avvolto da un alone di indeterminatezza (il tatuaggio che gli copre la schiena è un tipico segno della malavita giapponese), forse non ottimale nella fruizione dei significati, che lo rendono una figura sfaccettata, a tratti enigmatica.
Sul versante dell’amore la sua impersonificazione la si ha con Noi, giovane ragazza all’esatto opposto di Kenji, disordinata, solare (ma non troppo), vitale, nella metafora animalesca lei è uno scarabeo, magari non dall’aspetto troppo grazioso ma in grado di volare, e infatti sarà lei ad andarsene su un aereo per Osaka. Anche Noi, come lui, ha un lato nascosto, magari meno indecifrabile ma che comunque c’è e si concretizza nella burrascosa relazione con il delinquentello in tuta militare. Ma il fattore che lega più di ogni altra cosa queste due differenti solitudini è la morte. La morte dei rispettivi fratelli. In sostanza si potrebbe dire che questo sia l’amore che nasce dalla morte, sebbene sia un amore che non si compie né si completa poiché si sedimenta dentro due interpreti parecchio lontani da una possibile vicinanza carnale. Ma resta comunque un antidoto contro la solitudine.
Come potrete aver capito i temi affrontati non sono una novità assoluta. Ratanaruang ha però la voglia di cercare strade diverse - molto bello il titolo che appare dopo mezz’ora di girato - pur dicendo cose che altri hanno già detto e anche meglio. E comunque permane un finale significativo dove viene rimessa in discussione la pellicola tutta, aprendo interessanti scenari in grado di dare nuovi significati ad altrettante visioni.
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