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Lavoro per pochi, stato sociale per nessuno

Creato il 10 ottobre 2012 da Albertocapece

Lavoro per pochi, stato sociale per nessunoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Si è presentata con la stessa provocatoria giacca verde pisello, che la fasciava in occasione di una vittoria calcistica, per umiliare il popolo Greco nella partita infame dell’Europa contro il suo Terzo mondo interno. Sarà per quella partita del secolo nella quale avevamo schiacciato la Germania, che le visite della cancelliera da noi trascorrono nell’indifferenza, rotta solo dalle lagnanze degli automobilisti romani estenuati dalle deviazioni del traffico? Come se l’opposizione si materializzasse solo attraverso un accidioso malumore logistico, un compunto disappunto, perché si sa “il problema di Palermo è il traffico”.

La retorica sulla nostra identità, una componente mille volte affiorata nell’autobiografia nazionale è una tendenza al ribellismo anarcoide, una indole al disordine anche creativo, quella inclinazione a subire come nella commedia dell’arte, per poi suscitare da dentro uno sberleffo spericolato, grazie a una insofferenza che diventa ammutinamento.
Invece ora che anche le forze che dovrebbero rappresentare gli interessi popolari garantiscono solo i vincoli clientelari, ora che il cosiddetto rigore ha assunto la veste penitenziale e punitiva di dell’accanimento su un corpo in coma, l’Italia sembrerebbe aver interiorizzato la società disciplinare subendo ogni colpo ben oltre l’evidenza del grottesco, mettendo in luce una inclinazione a comportamenti suicidi che si esprimono e forse si esprimeranno anche nel voto.

Io, come molti, ho sempre sostenuto che Berlusconi altro non era che il volto “prestato” a testimoniare l’idealtipo dell’Italia peggiore, il guitto saltato sul trono che parla la lingua del trivio, con le barzellette, le allusioni e gli sberleffi, ma che assomiglia a quello che spesso i cittadini per bene hanno vergogna di portare in superficie e svelare. Un tirannello da Repubblica delle Banane ma adatto a favorire il disincanto della democrazia, una sgradita conferma dello scetticismo di Platone che la chiamava “l’affermazione della feccia”, o delle profezie di Montesquieu o Tocqueville sul disamore fisiologico e sul rischio del paternalismo populista e demagogico.
C’è poco da accontentarsi che il suo trono di cartapesta abbia vacillato fino a crollare – se è crollato. Il teatrino della politica è ormai solo una rappresentazione, con Grillo che in mancanza del Fiume Giallo fa il traghettatore tra Scilla e Cariddi, Vendola sublime caratterista dell’eclettismo politico, che vuol fare la lotta contro il liberismo all’interno del centrosinistra, pronto anche a rispettare una eventuale vittoria di Renzi alla primarie, Bersani che probabilmente in attesa di rivaleggiare con Grillo tentando di oltrepassare la barriera del suono, assicura il suo leale appoggio al dispotismo dei tecnocrati, tutti sul palcoscenico a recitare il più brutale paradosso immaginabile: una messe di voti antiliberisti messi a disposizione del programma più sfacciatamente liberista e classista dell’Italia repubblicana.

Insomma siamo al cospetto di una “politica” che non conta in Italia dentro un’Italia che non conta in Europa, senza voce per farsi sentire, se ha rinunciato alla parola e alla sovranità, stravolgendo la costituzione e abdicando dall’autodeterminazione in materia di politica industriale, fiscale, economica e di bilancio.
Siamo una nazione commissariata che subisce i suoi caporali col frustino senza reagire. C’è chi dice che non servono a nulla le imponenti manifestazioni che hanno luogo a Madrid, Lisbona e Atene, che testimoniano di un’opposizione sociale all’austerity e al rigore, ormai ridotto a rigor mortis. C’è chi dice che non è sufficiente reclamare un reddito incondizionato, una garanzia di base come contrasto anche simbolico alla precarietà e alla povertà dilagante. C’è chi dice che non basta per difendere il lavoro dipendente, per rimettere in campo il salvataggio dell articolo 18 e degli ammortizzatori sociali, evocare l’assedio del Parlamento, come in Spagna, Grecia e Portogallo. Paesi che dividono con noi le patologie, per nulla anomale ormai, di una corruzione egemonica intrecciata saldamente con la criminalità e con l’illegalità economica e fiscale in un intreccio tossico. E ricordano che si tratta di azioni suggestive ma che rischiano di contrapporre alla rappresentazione della politica, quella dell’opposizione, se si limitano allo sfogo di una mera rabbia, di una esasperazione tanto avvelenata quanto effimera.
È probabile che sia così. È possibile che la precarietà nutrita come valore dai poteri forti, abbia contagiato anche il nostro manifestare, dandogli forme ed effetti fugaci. È plausibile che egoismo e individualismo attribuiscano il primato solo alle battaglie lobbistiche o corporative.

Ma è anche possibile che siamo vittime di una fascinazione negativa, che vuole persuaderci che non c’è nulla da fare, che è inevitabile assoggettarsi agli implacabili diktat di quella cupola globale che ha nel governo i suoi picciotti zelanti. E allora è anche possibile che cominciamo a guardare agli operai e ai cittadini di Taranto, a quelli dell’Alcoa, a quelli della Fiat, agli esodati, agli insegnanti, alle famiglie che devono scegliere chi deve restare a casa perché c’è lavoro per uno solo e stato sociale per nessuno, guardare a tutti loro con una appartenenza e una solidarietà totale. Non sono segmenti della società, separati e estranei che affondano mentre noi ci attacchiamo, se possiamo, alle poche scialuppe rimaste, contenendole come avviene nelle lotte tra poveri. Dobbiamo dare forza e valore alle forme di autorganizzazione sociale dentro e contro la crisi perché non rimangano solo forme di autodifesa. I padroni sono riusciti laddove i lavoratori sono mancati: hanno trovato unità e rinnovato la loro potenza. Impariamo da loro, per una volta.


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