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Le abitudini della scrittura

Da Marcofre

Sarò pedestre finché vuoi, ma io credo fermamente nelle abitudini in materia di scrittura.

Piccola frase di Flannery O’Connor sulla scrittura, o meglio su come lei lavorava. Un paio di ore al giorno, e in quelle due ore solo quello e nient’altro. Spesso non cavava un ragno dal buco, e quello che aveva scritto finiva nel cestino della spazzatura. Eppure la scrittrice americana affermava che serviva:

Qualcosa comunque si muove e, al momento buono, renderà tutto più facile.

Anche qui sono d’accordo, benché a mio parere la “facilità” dura sempre troppo poco. Ecco, c’è una discesa e in bicicletta ci si lancia quasi senza frenare. Tanto presto ricomincerà la salita, ci sarà da penare.

Si può scrivere per un miliardo di buone ragioni, ma di sicuro se si ha un briciolo di buonsenso dopo un po’ ci si rende conto che, quando è possibile, occorre essere metodici.

Raymond Carver per molto tempo (anni, a essere precisi) non lo è stato affatto. È riuscito a scrivere e a pubblicare, ma non c’è niente di meglio che sedersi a una scrivania e scrivere. Invece di farlo nel garage, chiuso dentro l’automobile e con il quaderno appoggiato al volante.

Buttare giù quello che si ha in mente è una buona strategia a patto che si sappia che dopo è necessario rimboccarsi le maniche. Dall’apparizione del personaggio, alla sua messa a punto, passano giorni, addirittura mesi, soprattutto se si tratta di un romanzo.

Ma non è detto che si arrivi a un risultato. Non bisogna mai credere che si scrive per pubblicare o avere una storia da proporre. Atteggiamento sbagliato, perché esiste il rischio di non rendersi conto di aver scritto qualcosa di poco interessante.

Zia Flannery infatti dice che “qualcosa comunque si muove”. Magari salta fuori l’idea per un’altra storia. Oppure no: è solo un esercizio di scrittura e una volta terminato, si passa ad altro. Però si è esercitata la mano.

I bravi autori hanno un sesto senso riguardo le loro opere: capiscono se hanno scritto qualcosa che non va da nessuna parte. Non si preoccupano della sua perfezione, perché tanto non esiste, quindi è inutile cercarla. Badano a essere efficaci.

Poi ci sono i bravi autori che hanno finito le storie, e continuano a scrivere, a pubblicare. Ma questo è un altro argomento, però posso comprendere perché si continui. È un’abitudine che è diventata una sorta di idolatria: non c’è niente da scrivere, si obbedisce solo a una divinità (l’abitudine appunto), che se ne è andata.


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