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<<La paura può tenerti prigioniero, la speranza può renderti libero>>
Sono le scelte che facciamo che ci contraddistinguono, di questo ne sono certa, e questa mia idea di scelta si alimenta ogni qualvolta mi capiti di ammirare sullo schermo la storia di quell'Andy Dufrense e della sua "redenzione" tra le mura dello Shawshank.
Le ali della libertà (1994), diretto da Frank Darabont, (autore anche de Il Miglio Verde, secondo capolavoro dedicato al dramma carcerario uscito nel 1999) è tratto da uno dei racconti di Stephen King racchiuso nella raccolta Stagioni diverse, dal titolo Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank.
Ancora oggi, quando parlo di questo film penso (così fin troppo "retoricamente") a uno dei più "belli" che la mia memoria ricordi...
Andy è un bancario dall'intelligenza fuori dal comune, un uomo colto convinto ancora che in un libro possa nascondersi la chiave della "salvezza". La sua vita viene stravolta da una (ingiusta) condanna a due ergastoli da scontare nel carcere del Maine, lo Shawshank, per l'uccisione della moglie e del suo amante. Nella terribile realtà, fatta di ingiustizie e violenze imperdonabili, ci sarà tuttavia per Andy uno spiraglio di luce dato dal primo e fondamentale legame instaurato in quei cortili asfisianti, con il "contrabbandiere" dello Shawshank, Ellis Boyd Redding, detto "Red".
Nessuno poteva immaginarsi cosa Andy avrebbe fatto con quel piccolo martello da roccia, nessuno, nemmeno Red. E soprattutto nessuno poteva immaginare fin dove sarebbe arrivato quell'uomo così distante e singolare che se ne stava nel cortile a passeggiare come se fosse nel parco a scrutare i passanti. La "leggerezza" nei suoi movimenti, quella camminata e quello sguardo perso tra la folla, gli altri, quasi tutti "colpevoli", quelli che sostengono di stare dentro a scontare la "beffa" di un avvocato fasullo.
Quello che sorprende del film di Darabont, oltre alle spettacolari interpretazioni dei protagonisti Tim Robbins e Morgan Freeman, è la singolare poesia con la quale viene messo in scena il dramma, e il riscatto, di un uomo condannato ingiustamente. E la cosa non può lasciare indifferenti perché il tema affrontato è piuttosto delicato. Riuscire a dare "poeticità" e sfumature così profonde e allo stesso tempo sottili, che si disperdono tra le sbarre e tra le violenze quotidiane, è davvero complicato.
La nostra attenzione va tutta quanta verso quest'uomo straordinario, ci perdiamo nel vederlo intento nelle sue imprese e nei suoi tentativi di "salvezza", è un po' come prendere parte a una memorabile lezione di "vita". Il signor Dufrans lotta contro tutto e tutti, ma non cede alle torture delle guardie e del disgustoso direttore (un odioso Samuel Norton). La forza di volontà e la voglia di dare a tutti una seconda possibilità di "salvezza" sarà per Andy l'arma più potente da "sfoggiare" durante la sua battaglia.
Il lavoro fatto in fase di sceneggiatura, curato dallo stesso Darabont, è davvero incredibile. Chi ha letto il racconto di King sa però che ci sono delle incongruenze rispetto al libro, piccoli stravolgimenti cinematografici, che, e non smetterò mai ribadirlo, fanno parte "del gioco". Voglio dire cosa cambia a me, spettatrice, se nel film vengono alterate alcune date, o se magari nel libro il direttore non è sempre lo stesso e se ne alternano più di due. Cosa cambia durante la visione del film se le birre offerte dalle guardie grazie alla prima "trovata" di Andy vengono servite fredde mentre King le fa bere ai detenuti/operai calde?
Non ho mai fatto una scelta, perché non è questo che conta quando si ha di fronte un buon libro e un buon film. Nonostante i grandi dell'Academy non abbiano ritenuto "opportuno" premiare con la statuetta Le ali della libertà, io continuo a dire che questo drammatico affresco realizzato da Darabont sia uno dei film più belli che il cinema americano "del vecchio secolo" ci abbia regalato. Uno dei più importanti, a mio avviso, messaggi che il cinema abbia dato al suo pubblico, in particolar modo ai giovani convinti di non avere speranza. La salvezza c'è sempre, anche quando sembra finita. La si può trovare in un libro, nell'istruzione( le citazioni sono molte nel film, dalla Bibbia al Conte di Montecristo di Alexander Dumas), in una passione (Andy coltiva quella per le rocce e i minerali, per gli scacchi e per la musica classica). Sono queste le ragioni che devono far sperare ognuno di noi, è proprio in loro che a volte la salvezza aspetta solo d'esser scovata...
Ah, volevo dire e poi concludo, è vero, la storia di Red e del suo perché riguardo il "nome" lascia dei dubbi. Ma questo rientra purtroppo nell'ennesima pecca dei doppiaggi nostrani che pur di adattare a proprio gusto i dialoghi di un film non si preoccupano nemmeno di starne a stravolgere completamente il senso. Quando Andy chiede: <<Perché ti chiamano Red?>> la risposta che noi conosciamo è:<<Forse perché ho i capelli rossi>>. Beh, senso non ne ha davvero, c'è poco da dire. La realtà è che nel libro il personaggio di Red è un bianco irlandese dai capelli rossi e nella versione originale del film la risposta di Freeman è molto diversa, ovvero: <<Forse perché sono irlandese>> e gli irlandesi si sa, si distinguono per i loro capelli rossi.
Evviva il cinema, Evviva il doppiaggio italiano...
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