Le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Non tocca più solo ai personaggi famosi – criticano noi giornalisti e blogger perché tiriamo fuori dal cassetto “il coccodrillo” su misura – e alle vittime dei fatti di cronaca, ma a chiunque se ne vada all’altro mondo. Mi sembra di essere tornato nei piccoli paesi. Tutti mormoravano nella lettura del manifesto del defunto per capire chi fosse, a chi appartenesse (guai se il tipografo ometteva il soprannome per cui era conosciuta la famiglia), e se poi era un giovane strappato alla vita cominciava la litania collettiva. Eppure non si capiva bene se questa ostinata partecipazione comunitaria al dolore fosse la sindrome paesana dell’appartenere tutti alla stessa razza o si riducesse a una curiosità folcloristica che ci mette poco a diventare cialtroneria inviperita.
Torno a ripeterlo: le bacheche di Facebook ammazzano i morti due volte. Appresa la triste notizia, la morte diventa “social”: trovi un messaggio che ti invita ad andare su una tale bacheca per guardare la foto taggata, accertarti chi fosse il malcapitato e lasciare il tuo messagino di cordoglio o uno degli aforismi mielosi e preconfezionati che circolano nei social network. A questo punto mi permetto di suggerire alle pompe funebri la vendita di un nuovo servizio: una fan page-lapide o la gestione post-mortem del profilo della persona scomparsa secondo i canoni dell’animazione del villaggio turistico “facesbookiano”, anzi pacchiano (fa pure rima!).
Il dolore è troppo serio per finire spiaccicato nella piazza rumorosa della rete; il dolore è privato e tale deve restare, e non può essere vissuto come un passaparola, ma con le persone a cui ci sentiamo davvero vicini. E i legami non si costruiscono sul quantitativo di pseudo-amici che abbiamo in rete, ma nella realtà che ci porta a condividere le emozioni e ci mormora l’amaro “fujetevenne” eduardiano da queste visioni grezze e meschine, a cui mi ribello da quando scalpitavo nel pancione di mia mamma.