Magazine Marketing e Pubblicità

Le bellezza del gesto atletico richiede osmosi al management

Creato il 11 luglio 2011 da Sdemetz @stedem

Le bellezza del gesto atletico richiede osmosi al management

Mi rendo conto di rischiare di essere monotematica, di vedere l’organizzazione degli eventi sempre e solo dallo stesso punto di vista, quella della sfida tra gli strumenti del non-profit e la professionalità necessaria.

Il fatto è che si tratta di una tale affascinante sfida, anzi, direi, fondamentale sfida, che non posso non soffermarmi qui ancora una volta. Lo spunto mi viene da un  evento cui ho partecipato: la Graduation e Reunion di Alma, presso la Graduation School dell’Universitá di Bologna, dove sono stata invitata a parlare del mio mestiere.

Circoscrivo qui le mie riflessioni al mondo dello sport, che è quello che conosco meglio.

Gli anni Sessanta sono stati per tutto il nostro paese anni straordinari da un punto di vista dello sviluppo economico e culturale. Sono stati gli anni dei grandi pionieri, non solo nell’imprenditoria, ma anche nello sport. Anni in cui un’idea geniale aveva la forza di imporsi, di vincere grazie alla passione, grazie alle visioni, grazie, anche alla facoltà di sognare e grazie al fatto che tutto era da costruire. Ci si muoveva in paesaggi aperti e vergini. Si doveva essere visionari, sognatori e naturalmente capaci. Una bella idea è bella davvero quando si realizza. E già allora il sogno da solo non bastava. Il contesto certamente non era semplice, ma evidentemente era meno complesso di oggi.

Sono passati quaranta o cinquanta anni. Il mondo è cambiato radicalmente e anche questo mondo, quello degli eventi sportivi, presenta una fisionomia profondamente modificata. Lo sport oggi senza sponsor non può pensare di vivere. Grandi aziende investono milioni di euro per promuovere il proprio prodotto sfruttando il carattere fortemente emotivo di una competizione sportiva. Le televisioni del mondo (nel caso di eventi internazionali) investono anch’esse milioni di euro e devono garantire dirette appassionanti per non perdere share in una competizione, quelle della televisione, che si batte sulle percentuali di spettatori. L’evento sportivo stesso non è più solo una competizione. Intorno al campo di gara è cresciuto negli anni un mondo parallelo ed integrato di eventi collaterali e di servizi. Chi investe e opera nei grandi eventi oggi richiede professionalità. Lo richiedono anche gli atleti. Essi stessi praticano sessioni di allenamento in cui la tecnologia, la ricerca e l’innovazione sono messe al servizio della prestazione sportiva. Tutto questo si può riassumere in un solo modo: professionalizzazione.

Può non piacere, ma è il mondo nel quale viviamo. Può non piacere, ma bisogna essere consapevoli che senza interessi economici alle spalle non vi sarebbero sponsor, non vi sarebbe televisione, non vi sarebbe sport. Può non piacere perché il “come era una volta” affascina di più, è più romantico, è forse più puro, ma è appunto un “come era una volta”, quando non esisteva nemmeno il fax, quando gli atleti indossavano normale abbigliamento sportivo, quando la televisione era una, quella pubblica, e in bianco e nero.

In occasione della scelta del CIO di assegnare le Olimpiadi Invernali 2018 alla Corea del Sud, durante un dibattito televisivo dalla Baviera, sconfitta con l’eliminazione di Monaco, c’era chi  chiedeva che i Giochi Olimpici tornassero ad essere un’occasione vera di espressione dello spirito olimpico originario e non una questione di business. Sarebbe bello, certo. Ma come è pensabile di allestire un evento globale quali le Olimpiadi con un semplice spirito di “amore fraterno”? Non voglio apparire cinica o speculativa. Io amo gli eventi sportivi e trovo che le emozioni che gli atleti ci sanno regalare sono uniche, irripetibili, indimenticabili. E mi sento onorata di poter lavorare al loro servizio creando le migliori possibili condizioni di gara e garantendo agli appassionati un’esperienza indimenticabile. Ma, sono anche una persona che pur amando gli eventi sportivi vive nel mondo reale, dal quale non posso prescindere. Lo sviluppo occorso negli ultimi decenni rende tutto più difficile e complesso, ma non impedisce di esserne attori in modo appassionato ed onesto. Una fra le tante condizioni è: consapevolezza manageriale e rispetto (potrei usare la parola etica) nei confronti della bellezza del gesto atletico.

E allora, torno al mio amato tema: la grande opportunità del non-profit.

La maggior parte degli eventi sportivi è non-profit e non può essere messa a rischio da visioni romantiche o nostalgiche per un mondo che non esiste più. Il volontariato è una base fondamentale, ma quando si trattano contratti da centinaia di migliaia di euro, il volontariato deve essere affiancato da professionisti, competenti e capaci.

Per giocare sui paradossi: Gino Strada è un medico professionista che lavora per un’associazione non profit. Non prende in mano il bisturi per tagliare in un modo o nell’altro, ma lo fa sapendo cosa deve fare. Ebbene, anche nel management degli eventi sportivi si usa il bisturi. Perché quella del manager è una professione e come tale va imparata e ne vanno acquisiti gli strumenti.

I due mondi non sono in conflitto. La professionalizzazione e la passione per lo sport, quella pura, quella che affonda le sue radici nello spirito pionieristico di cinquanta anni fa, possono continuare a lavorare insieme. Rubando a Florence Noiville l’invito (dal suo libretto best seller “Ho studiato economia e me ne pento”) che rivolge alle Business School e riversando questo invito sul management sportivo, mi verrebbe da dire che c’è bisogno di assumersi una responsabilità per (creare) una classe dirigente che guardi al futuro e non all’adesso, a classi dirigenti, che oggi, sebbene a disagio, liquidano i loro stessi comportamenti con una banale “colpa del sistema” (colpa che nello sport è troppo spesso attribuita alla romantica visione dell’impegno volontaristico per la gloria).

Un atleta si butta nel campo di gara. Le immagini sono bellissime. La sua prestazione è il risultato di talento, ma soprattutto di allenamenti, di ricerca, di determinazione, di capacità, di competenza … Il nuotatore sa come muovere le braccia per essere più efficace. Lo sciatore sa come ammortizzare i salti per non perdere centesimi preziosi. Il maratoneta sa come preservare le energie per arrivare fino fondo. Sanno cosa fare. E lo sanno perché si sono allenati, hanno imparato e perché dietro di loro c’è chi ha investito professionalmente nella ricerca.

Perché un manager di eventi sportivi o un dirigente sportivo tout-court dovrebbe tradire questa bellezza, tradire il cuore di ciò che grazie al suo lavoro trova visibilità in un evento, lavorando senza la stessa quantità di allenamenti, di ricerca, di determinazione, di capacità, di competenza?

Per chi lavora nello sport, lo sport non è semplicemente una comoda metafora per esprimere valori quali la tenacia, la serietà, la competizione sana … Per chi lavora nello sport, lo sport è l’anima stessa del suo mestiere, è un concreto e reale punto di riferimento.

Ecco, chiudo gli occhi e vedo un discesista riprodurre con il movimento delle mani la pista che affronterà poco dopo in gara. Anche lui ha gli occhi chiusi e in quel movimento sinuoso e quasi poetico, come se le sue mani fossero i suoi sci, c’è l’essenza assoluta di ciò che lui e noi con lui dobbiamo fare: essere preparati, essere concentrati, essere consapevoli, essere competenti.

Per chi fosse curioso, stralci di “bisturi” per gli sport manager si trovano nella categoria management di questo mio frammentato blog.

(foto credit: r. perathoner)


Filed under: Opinioni

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :