Magazine Cultura
Ricordo un episodio accaduto quando lavoravo in provincia, oltre venticinque anni fa, in un paese piccolo quasi un borgo, due classi di bambini di scuola infanzia, quando ancora il tasso di natalità era fatto di numeri interi.
Non ci volle molto a rendermi conto, dopo un mese abbondante di scuola, che un bambino di quattro anni non giocava e non parlava con i compagni. Con i genitori di scuola infanzia si comunica tutti i giorni all'ingresso o all'uscita, fu così che cercai di chiedere qualche notizia sul bambino informandomi sul comportamento a casa. La madre, sulla difensiva, mi chiese il perchè di quelle domande, ma io non avrei potuto neppure volendo fornire altre spiegazioni, in realtà cercavo a mia volta di capire, spiegai che a volte il bambino non rispondeva quando veniva chiamato. Mi rispose che succedeva anche a casa, ma che le sembrava normale data l'età. Finì così col non darmi le informazioni che mi servivano e da quel giorno si comportò in modo sbrigativo fermandosi il meno possibile quando veniva a scuola. Così io continuai per alcuni mesi le mie osservazioni. Segnai sul registro gli episodi più significativi e timidamente, ormai arrivati a metà anno, in accordo con la collega, riprovai a parlare con la mamma, dissi, con molta prudenza e con tutta la dolcezza possibile, che avevamo l'impressione che il bambino non udisse bene, e a quel punto ammise che questo problema era frequente anche a casa. In realtà già per caso ci eravamo accorte che il bambino si girava ogni volta che c'era un rumore improvviso, ma tenemmo per noi quell'osservazione, non essendo medici, avevamo detto anche troppo. La settimana successiva il bambino venne accompagnato ad una visita audiometrica, prima della fine dell'anno la madre depositò agli uffici della Direzione una certificazione, nella solita poco decifrabile calligrafia medica, e non per sordità.
Ogni tanto ripenso a questa storia, ci ho ripensato ogni volta che mi è capitato di comunicare ai genitori le difficoltà dei loro figli, certo raramente e per fortuna situazioni meno gravi. Di solito cose molto risolvibili, con molta pazienza e molto tatto. E in quella situazione, sarebbe stata sufficiente una parola in più o una di meno, per sbagliare tutto.
Perchè quando a scuola dobbiamo dare delle cattive notizie, il modo, la pazienza, il tono della voce, l'idea che stiamo fotografando una situazione e non emettendo una sentenza contano sempre, anzi contano più che altrove, contano quasi come quando siamo dal medico e aspettiamo una risposta.
Solo che noi insegnanti rispetto al medico abbiamo sempre un vantaggio, parliamo di crescita, di sviluppo, d'apprendimento, parliamo nell'ottica di ciò che deve ancora avvenire, non abbiamo radiografie da analizzare. Essere propositivi anche quando tutto appare difficile è la sola chiave per comunicare i problemi.
Comunicare nel modo sbagliato può voler dire spaventare un genitore, l'esito può essere quello di alienarsi la collaborazione sua e del bambino. Potrebbe voler dire rinunciare a priori a trovare una possibile soluzione al problema o a mettere in atto tutte le possibili strategie. Allo stesso modo è pericoloso comunicare la propria impotenza: è come aprire la porta alla mancanza di fiducia. E' possibile che anche noi siamo spaventati da quel problema, è comprensibile. Ma lo spavento, la paura della situazione o di comunicare le cattive notizie non solo non aiutano il genitore ma mettono noi in ulteriore difficoltà. Ecco perchè vanno comunicate sempre le difficoltà senza anticiparne le origini, lasciando a chi deve, il compito d'indagarle e individuarle. Anche perchè chiedere l'aiuto della famiglia nell'individuare un problema serve solo a garantire le migliori strategie possibili per l'apprendimento.
N.B. In realtà i dettagli del racconto sono diversi da quanto scritto, ma cambiare i dettagli serve a tutelare i protagonisti, anche se sono passati tanti anni da allora.© Crescere Creativamente consulta i Credits o contatta l'autrice.
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