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Le chiavi del pivot passano anche per Jakarta

Creato il 21 luglio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

President Barack Obama offers a toast during the state dinner hosted by President Susilo Bambang Yudhoyono at the Istana Negara State Palace in Jakarta, Indonesia, Nov. 9, 2010. (Official White House Photo by Pete Souza)  This official White House photograph is being made available only for publication by news organizations and/or for personal use printing by the subject(s) of the photograph. The photograph may not be manipulated in any way and may not be used in commercial or political materials, advertisements, emails, products, promotions that in any way suggests approval or endorsement of the President, the First Family, or the White House.

di Alessandro Tinti

Con il governo iracheno di Nouri al-Maliki assediato dalla guerriglia orchestrata dai militanti sunniti di al-Qaeda e dell’ISIS, l’Afghanistan stritolato nella morsa della depressione economica e delle scorrerie talebane, lo stallo apparente della guerra civile siriana e le agitazioni separatiste deflagrate in Ucraina che hanno alzato la posta del confronto di posizione con Mosca, si potrebbe congetturare che l’amministrazione statunitense debba necessariamente smorzare l’enfasi sul rebalancing programmatico nell’Asia-Pacifico. Al contrario, lo svolgimento del U.S.-ASEAN Defense Forum alle Hawaii gli scorsi 1-3 aprile ed il successivo itinerario di incontri al vertice intrapreso dal Segretario della Difesa Chuck Hagel (si tratta del quarto viaggio ufficiale nella regione asiatica dall’assunzione della guida del Pentagono nel febbraio 2013) testimoniano la solidità della direzione diplomatica prefigurata dalla presidenza Obama. Il summit di Honolulu costituisce un precedente importante poiché per la prima volta gli Stati Uniti hanno ospitato entro i propri confini i Ministri della Difesa dei 10 Paesi ASEAN, consolidando così l’imperativo strategico di intessere una trama di relazioni favorevoli all’espansione della presenza di Washington nel Sud-Est Asiatico e motivate in prima istanza dal contenimento del revisionismo cinese [1].

Dall’annuncio dello spostamento del baricentro statunitense, il deep engagement prospettato dal governo Obama [2] è atteso alla riproduzione di un regime multilaterale assimilabile al modello transatlantico, che nel secondo dopoguerra associò le risorgenti potenze europee alla leadership americana. Ciononostante, l’emersione di dissidi con le potenze minori dell’area denota come l’apertura egemonica degli Stati Uniti non sia meccanicamente accolta secondo gli auspici degli statisti americani. Da questo punto di vista assumono un valore paradigmatico le relazioni ristabilite con il governo di Jakarta che, malgrado la rinnovata convergenza sollecitata dall’elezione di Obama (il quale ha trascorso parte dell’infanzia nell’arcipelago indonesiano), hanno recentemente conosciuto delle altalenanti fasi di arresto, in particolare nell’ambito cruciale della cooperazione in materia di sicurezza.

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Rotte nel Sud-Est asiatico - Fonte: The Strategist

Nella fluida ricomposizione dello scacchiere asiatico, l’Indonesia rappresenta un perno fondamentale per la proiezione di influenza concepita dai decision-maker statunitensi. Negli Stretti di Malacca, Lombok e Sunda sono infatti costrette le linee di comunicazione marittima che riforniscono i mercati del Pacifico ed in particolare vi transitano le rotte energetiche che collegano i pozzi del Golfo Persico all’imponente domanda delle economie asiatiche. Oltre alla centralità geostrategica dei chokepoints che affollano l’arcipelago indonesiano, da oltre un decennio il Paese ha imboccato il sentiero della crescita economica beneficiando di tassi annuali di incremento del PIL costantemente positivi (mediamente superiori al 5% nell’arco temporale 2003-2013), di un tasso di disoccupazione contenuto malgrado la forte pressione demografica (attualmente del 5.7%) e di un ridotto indebitamento pubblico (che al primo quadrimestre del 2014 si attesta attorno al 26% del PIL) [3]. Trainata dall’industria estrattiva, l’Indonesia è uno dei motori del raggruppamento ASEAN (ossia di un mercato regionale che associa oltre mezzo miliardo di consumatori e che in termini di ricchezza aggregata ha oltrepassato nel 2012 la quota di 2.3 trilioni di USD) e, dopo l’ingresso nel G20, ha espresso la ferma volontà di accedere anche al forum BRICS. Sebbene il grave ritardo delle reti infrastrutturali condizioni in negativo la capacità di attrarre investimenti e capitali esteri [4], l’apparato produttivo indonesiano ha dunque saldamente superato gli effetti devastanti della crisi finanziaria che tra il ’97 ed il ’98 si abbatté sui mercati asiatici. Inoltre, alla rinascita economica è seguita di pari passo la normalizzazione politica di un Paese che con le convulsioni del vecchio regime sembrava destinato a crollare sotto gli urti dei separatismi locali: le riforme avviate con l’allontanamento di Suharto dalla vita pubblica hanno invece consolidato un’insperata transizione verso un sistema democratico, multipartitico, multietnico e tendenzialmente impermeabile all’infiltrazione delle gerarchie militari.

In questo senso l’Indonesia – primo Paese a maggioranza musulmana in termini di popolazione – con l’esplosione della minaccia di al-Qaeda è diventata un’interlocutore privilegiato della politica estera degli Stati Uniti che frequentemente ne hanno portato ad esempio la laicità e l’aconfessionalità delle istituzioni [5], come anche la collaborazione prestata in attività di repressione di cellule terroristiche di matrice islamica, allo scopo di temperare la ricezione ideologica delle vaste campagne belliche condotte nel Grande Medio Oriente.

I processi di mutamento brevemente riportati hanno esortato presso la dirigenza statunitense un significativo cambio di rotta nei confronti del nuovo corso indonesiano. Se già nel 2005 l’amministrazione Bush aveva rimosso i veti congressuali all’erogazione dell’assistenza militare (applicati nel 1992 a seguito degli eventi di Timor Est), la svolta è maturata propriamente con l’insediamento dell’esecutivo democratico e con la “comprehensive partnership” sottoscritta dai presidenti Obama e Yudhoyono nel novembre 2010, che ha disposto la creazione di una Joint Commission incaricata di perfezionare annualmente un piano d’azione articolato su tre pilastri tradizionali (politica e sicurezza; economia e sviluppo; cultura, educazione, scienza e tecnologia). Anche in considerazione dell’impegno profuso verso l’estensione della membership dell’East Asian Summit ed a favore dell’incipiente trasformazione dell’ASEAN in unione doganale, l’intesa statuisce l’Indonesia quale uno snodo fondamentale del disegno strategico delineato dall’amministrazione Obama [6].

Ciononostante, malgrado la reiterata cooperazione nei settori dell’anti-pirateria, dell’anti-terrorismo e dell’assistenza umanitaria, l’inserimento della partnership bilaterale nel triangolo di sicurezza che stringe Singapore, Australia e Filippine agli interessi della superpotenza appare tutt’altro che esente da attriti e da false partenze. In primo luogo, la saldezza della convergenza stabilita con Washington subisce i contraccolpi delle annose tensioni che il governo di Jakarta intrattiene con i vicini regionali, in larga parte provocate dalla sovrapposizione delle rispettive zone economiche esclusive e dalle conseguenti dispute marittime. Nonostante le regole di condotta definite dagli accordi quadro concertati dentro e al di fuori dell’ASEAN, l’Indonesia mantiene controversie territoriali con Cina, Malesia, Singapore, Papua Nuova Guinea e Australia [7]. Con quest’ultima le relazioni diplomatiche hanno sperimentato una certa asprezza nel corso del 2013 a causa dei ripetuti sconfinamenti del naviglio da guerra australiano nelle acque indonesiane, l’accusa di lassismo mossa nei riguardi delle autorità di Jakarta in tema di controllo e limitazione dei flussi migratori diretti in Australia ed in particolare la denuncia di attività di spionaggio condotte ai danni delle comunicazioni riservate dei massimi esponenti del governo indonesiano (incluso il presidente Yudhoyono) [8], cui è seguita la sospensione della cooperazione militare tra i due Paesi. Questi incidenti si ripercuotono direttamente sull’espansione dell’impronta americana nel Sud-Est Asiatico dal momento che Washington guarda soprattutto al leale alleato australiano per il progressivo trasferimento di capacità di offesa e di sorveglianza nell’area – come avvalorato dalla rotazione di reparti anfibi nella base di Darwin che dovrebbe anticipare lo schieramento di una completa Air-Ground Task Force dei Marines entro il 2016.

Gli stessi rapporti tra Indonesia e Stati Uniti manifestano un’acuta e reciproca diffidenza. Se durante la presidenza Obama l’acquisto di equipaggiamenti e servizi bellici da parte della controparte indonesiana è divenuto consistente [9], gli alti ufficiali delle Forze Armate statunitensi hanno espresso qualche turbamento in relazione all’utilizzo degli armamenti procurati, che ufficialmente giustificati dal contrasto alla pirateria che imperversa nello Stretto di Malacca sono stati occasionalmente impiegati dalle forze di sicurezza indonesiane per stringere brutalmente il controllo sulle minoranze etniche e religiose (specialmente nelle provincie autonomiste di Aceh, Papua e Papua Occidentale). Numerose voci in seno al Congresso americano hanno denunciato i ricorrenti abusi commessi dalle Indonesian National Defense Forces e la spessa coltre di impunità che ne protegge l’operato. In questo senso l’evidente compressione delle libertà fondamentali ridimensiona l’effettiva preminenza della società civile sul ceto militare, tanto che nel settembre 2013 il Pentagono ha richiesto e ottenuto l’esclusione del corpo di eccellenza Kopassus – tristemente noto come strumento delle repressioni ordinate da Suharto ed artefice delle stragi compiute nel corso dell’invasione di Timor Est – da un’esercitazione anti-terrorismo coordinata dal U.S. Pacific Command, cui hanno preso parte le forze speciali di 18 Paesi.

Dalla prospettiva degli Stati Uniti sono inoltre fonte di dissapori le pronunciate politiche protezioniste che le autorità indonesiane sono propense ad applicare in ambito commerciale e che nel recente passato hanno attenuato gli effetti della crisi finanziaria del 2008. L’Indonesia affida tuttora la propria espansione economica alla domanda interna, che approssimativamente realizza il 60% del PIL. Non è un caso che Jakarta non partecipi ai negoziati per la definizione della Trans-Pacific Partnership, ossia del vettore su cui l’esecutivo Obama ha premuto con decisione al fine di rafforzare la postura della superpotenza nel Pacific Rim.

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Architettura regionale Sud-Est asiatico – Fonte: Asia-Pacific Center for Security Studies

Tanto la ritrovata armonia con il governo indonesiano quanto le spine che ne increspano le relazioni bilaterali mostrano al contempo prospettive e problematicità della diffusione di potenza nell’Asia-Pacifico; inoltre, evidenziano la distanza attuale tra le risorse di potere di cui dispone la superpotenza ed il controllo sugli esiti del processo politico che governa un’area altamente eterogenea. Il grande risalto alla partecipazione statunitense alle riunioni annuali dei forum APEC, EAS, ASEAN, la riapertura dei rapporti con Myanmar e la valorizzazione dell’asse con New Delhi sono aspetti complementari all’estensione del peso specifico di Washington nella riorganizzazione delle relazioni regionali [10]. Conviene però annotare come ad eccezione degli alleati ANZUS, di Giappone, Corea del Sud, Filippine, Singapore e qualche arcipelago minore (le Isole Marshall e le Isole Salomone) nessun partner commerciale degli Stati Uniti abbia offerto il consenso all’insediamento di una presenza militare americana entro il proprio spazio sovrano.

Con la riconversione multipolare dello scenario internazionale la Casa Bianca rischia pertanto di diventare una delle voci (seppur evidentemente ingombrante) che reggono gli equilibri regionali, piuttosto che ottenere un riconoscimento di garanzia e direzione da parte delle medie potenze del Sud-Est asiatico. In questa lunga ed incerta partita diplomatica il corteggiamento di Jakarta appare senz’altro come una chiave di volta fondamentale.

* Alessandro Tinti è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Firenze)

[1] Così l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton sintetizzava sulle pagine di Foreign Affairs i punti cardine della svolta strategica nel Pacifico: «(…) our work will proceed along six key lines of action: strengthening bilateral security alliances; deepening our working relationships with emerging powers, including with China; engaging with regional multilateral institutions; expanding trade and investment; forging a broad-based military presence; and advancing democracy and human rights», Hillary Clinton, America’s Pacific Century, in “Foreign Affairs”, vol. 189, n. 1., 2011.

[2] Il radicamento nel Sud-Est asiatico fu esortato da Jospeh Nye già̀ alla metà degli anni Novanta dietro il giudizio (affrettato nella prima proposizione, corretto nella seconda) che il naufragio della politica di potenza avrebbe esponenzialmente aumentato il valore strategico della geoeconomia. Cfr. Joseph S. Nye, East Asian Security: The Case for Deep Engagement, in “Foreign Affairs”, vol. 74, n. 4, 1995.

[3] Fonti: The World Bank, World Development Indicators; Bank of Indonesia.

[4] Cfr. Karen Brooks, Is Indonesia Bound for the BRICs? How Stalling Reform Could Hold Jakarta Back, in “Foreign Affairs”, vol. 90, n. 6, 2011.

[5] Tra le numerose esternazioni in tal senso, incisive sono state quelle rilasciate dal Segretario di Stato Clinton in occasione di un viaggio ufficiale nel paese asiatico: «If you want to know if Islam, democracy, modernity and women’s rights can coexist, go to Indonesia». Cfr. Mark Landler, Clinton Praises Indonesian Democracy, in “The New York Times”, 18 febbraio 2009.

[6] Cfr. Barack Obama, Remarks by the President at the University of Indonesia in Jakarta, 10 novembre 2010.

[7] In positivo, tuttavia, devono registrarsi i progressi compiuti nei negoziati bilaterali tra Indonesia e Filippine in relazione alla definizione delle rispettive pertinenze marittime. Cfr. Arif Havas Oegroseno, How Indonesia and the Philippines Solved Their Maritime Dispute, in “The Diplomat”, 14 giugno 2014.

[8] Per un approfondimento si rimanda a Henry Belot, Indonesia and Australia: Deteriorating Diplomacy, in “The Diplomat”, 26 novembre 2013.

[9] A titolo di esempio, tra il 2011 e il 2013 gli Stati Uniti hanno venduto 24 caccia F-16 e 8 elicotteri Apache per un importo complessivo di 1.200 mln. Cfr. Defense Security Cooperation Agency, Foreign Military Sales, Foreign Military Construction Sales and Other Security Cooperation Historical Facts as of September 30, 2012; Cheryl Pellerin, Hagel Announces U.S. Deal to Sell Helicopters to Indonesia, American Forces Press Servic3, 26 agosto 2013.

[10] Per un compendio operativo del rebalacing statunitense in tema di sicurezza si tenga presente il discorso tenuto (a Jakarta ed alla presenza del Ministro della Difesa indonesiano) dall’ex vice Segretario della Difesa Ashton Carter. Ashton B. Carter, The Rise of Asia and New Geopolitics in the Asia-Pacific Region, 20 marzo 2013.

Photo credits: Wikimedia Commons

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