Come tutti sanno, la data di Pasqua cambia di anno in anno. Ma ciò che forse ad alcuni sfugge è che anche se il giorno può cambiare, a Napoli, le tradizioni gastronomiche sono le stesse.
Il pranzo pasquale inizia con la tipica “fellata”, un semplice antipasto di affettati misti. Il termine deriva da “fella”, parola napoletana che indica la fetta. Infatti, tutti i salumi sono presentati tagliati a fettine più o meno sottili. Protagonisti del piatto il salame napoletano e il capocollo, seguiti da ricotta salata, provolone e uova sode. In alcune zone del casertano vedrete comparire sulla tavola anche la mozzarella di bufala.
Ad accompagnare la “fellata” il celebre “casatiello”, un cestino di pasta di pane a forma di ciambella. Il termine di questo piatto deriva dalla parola “caso”, che in dialetto napoletano vuol dire formaggio, e richiama la cospicua presenza di questo ingrediente all’interno del rustico. Riempiranno la ciambella diversi tipi di salumi, quali mortadella, prosciutto cotto e altri, con l’aggiunta di pecorino romano, parmigiano, strutto e ciccioli di maiale. Ora è bene definire la differenza tra il “casatiello” e il “tortano”. Nel primo le uova sono inserite per intero, con il guscio, a metà tra l’impasto e l’esterno, ricoperte da una croce di pasta. La forma del “casatiello” richiama la corona di spine alla quale fu costretto Gesù. Le uova ricoperte da una croce simboleggiano, invece, la resurrezione di Cristo che rinasce dopo la crocifissione. Il “tortano” presenta gli stessi ingredienti del compagno pasquale, senza però avere le uova disposte in semi superficie. Quest’ultime sono sbucciate, tagliate e inserite all’interno del rustico.
Il pranzo prosegue con la “minestra maritata”. Il nome deriva dal fatto che gli ingredienti, la carne e le verdure miste come cicoria, scarole, verza e borragine, si sposano, ovvero si cuociono insieme creando un unico sapore. Questo piatto ha origine antiche e ha subìto numerose modifiche nel corso degli anni. Per esempio, una versione cinquecentesca elaborata dal marchese Giovanni Battista Del Tufo è abbastanza lontana da quella più diffusa oggigiorno poiché prevedeva la mescolanza di salsicce di vario tipo, soppressata, pancetta, prosciutto, muso di vitello, piede di porco, carne secca, formaggio, finocchi e anice.
Dopo questo matrimonio di sapori, si arriva all’agnello con piselli. Nella tradizione cristiana questo animale simboleggia il sacrificio di Gesù. “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Recita il profeta Isaia.
Infine, dulcis in fundo, ecco concludere il pranzo pasquale con la pastiera. Secondo la leggenda, l’origine di questo dolce è legato alla sirena Partenope. I napoletani per ringraziare la meravigliosa creatura per il canto melodioso con cui allietava le loro giornate, incaricarono sette fanciulle di consegnarle i doni della natura. La farina, simbolo di forza della campagna; la ricotta, tesoro dei pastori; le uova, che simboleggiano il ciclo della vita; il grano bollito nel latte, simboli della natura; l’acqua di fiori d’arancio, per ricordare i profumi della terra; le spezie, come la cannella, in rappresentanza dei popoli lontani; lo zucchero, che ricorda la dolcezza del canto della sirena. Partenope consegnò i doni agli Dei che mescolarono gli ingredienti dando vita alla pastiera napoletana.
Fonti: Claudio Bernardi, “La drammaturgia della settimana santa in Italia”, Vita e Pensiero, Milano, 1991
Giovanni Battista Del Tufo, “Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”, Salerno editrice, Roma, 2007
Salvatore De Riso, “Dolci in famiglia”, Milano, Rizzoli Libri, 2009