Le città invisibili (1972) è una raccolta di racconti, o, per meglio dire, di descrizioni di città meravigliose in cui si mescolano dati reali, immagini del passato e scenari del futuro, prospettive favolose e ambientazioni oniriche, storie realistiche e archetipi mitici. Esse sono accomunate dall'avere nomi di donna dai tratti molto esotici, soprattutto di ascendenza greca e orientale. La cornice è costituita da un dialogo fra Kublai Kan, imperatore dei Tartari che assiste progressivamente al consumarsi del suo regno, e Marco Polo, il viaggiatore che di quel regno gli descrive ogni angolo, mescolando in favole incredibili i dati della sua esperienza e le sensazioni derivate da ogni tappa e ormai impossibili da ricondurre a notazioni reali. L'Oriente è, d'altronde, il mondo delle fiabe per eccellenza e le notti sulle terrazze del palazzo di Kublai Kan invitano a sacrificare la verosimiglianza al piacere della narrazione.
Le città invisibili è, per ammissione stessa dell'autore, il tentativo di "scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città", perché esse "sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d'un linguaggio; le città sono luoghi di scambio [...], ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi" (cit. dalla prefazione). I cinquantacinque racconti, infatti, sono suddivisi secondo undici tipologie ordinate in maniera sparsa: Le città e la memoria, Le città e il desiderio, Le città e i segni, Le città e il nome, Le città e la forma, Le città sottili, Le città e i morti, Le città e gli occhi, Le città e gli scambi, Le città continue e Le città nascoste.
Fra di esse troviamo la sfuggente Despina, "che si presenta differente a chi viene da terra e a chi viene dal mare perché "ogni città riceve la sua forma da deserto cui si oppone" o la longilinea Armilla, "che non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell'acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppopieni". Ma c'è anche Sofronia, la città che viene per metà montata e smontata, c'è Ottavia, città-ragnatela sospesa su un burrone, c'è Leonia, che si rigenera completamente ogni mattina. Ognuna di queste città è piena di immagini e di odori, di materiali e di riflessi e, seguendo la descrizione di Calvino, che, data la natura del testo, sembrerebbe dover essere ripetitiva e sovrabbondante, ci si scopre sempre nuovamente stupiti: talvolta sembra di camminare per le strade infinite, di essere nel mezzo dei caleidoscopi che ci vengono offerti e, al termine della lettura, portiamo come il piacere di un vero viaggio.
Ma, se le parole di Marco non fanno che costruire luoghi immaginari velati malinconia, se Kublai stesso sospetta che il suo ospite non sia davvero sincero nell'esibirgli il ritratto del suo impero, quale è mai lo scopo di tanta cura per i particolari, di tanti lemmi, di tanti gesti (perché è così che Marco si deve esprimere nei primi tempi, quando non conosce ancora la lingua del suo anfitrione)? In fondo "si sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quante sono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere raggiunto da altri luoghi, per le strade e le rotte più diverse, da chi cavalca carreggia rema vola." (cit. p.135). Ed è alquanto singolare che, quando domanda a Marco Polo se abbia mai visto una città in cui i ponti si incurvano sui canali, i palazzi principeschi hanno soglie di marmo immersi nell'acqua e i battelli volteggiano a zigzag spinti da lunghi remi, Kublai Kan si senta dare una risposta negativa: Venezia è la grande assente, la grande città invisibile, che il viaggiatore ha paura di perdere o di aver già perso a poco a poco.
Raccontare, confondere, omettere, aggiungere sono, in fondo, operazioni prive di importanza: la posizione, l'aspetto, l'estensione di una città sono informazioni buone per le mappe, ma la vita vuole di più. Ciò che deve entrare nelle serate stellate di Marco Polo e Kublai Kan non è la statistica, ma l'emozione che i luoghi - visti da uno, solo sognati dall'altro - regalano, le sensazioni che il viaggio costruisce. E, allora, non conta che le torri, le mura, le strade siano riconoscibili, conta solo il piacere di guardare e scoprire un luogo e di masticarlo nella memoria, trasformandolo in qualcosa di proprio. La città va vista internamente perché deve mostrare il passato e il futuro, le possibilità realizzate e quelle perse, le occasioni da godere e quelle consumate:
Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d'avere; l'estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t'aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti. Marco entra in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi [...]. Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un'altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.
- Viaggi per rivivere il tuo passato? - era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: - Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: - L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
C.M.
NOTE:
Le illustrazioni presenti in questo articolo fanno parte di una serie realizzata da Arianna Favaro e il loro uso è stato possibile grazie alla gentile concessione dell'autrice; si tratta di un lavoro ispirato proprio alla lettura del testo di Calvino e interamente visualizzabile sul suo sito, Ho chiuso gli occhi per vedere, assieme ad altre tavole altrettanto pregevoli. Ecco come Arianna ha presentato, in occasione dell'esposizione, Le città invisibili:
Come diceva Joan Mirò: "mi occorre un punto di partenza, non fosse altro che un granello di polvere o un lampo di luce. E poiché da una cosa ne nasce sempre un'altra, questa forma crea una serie di cose. Così un filo può scatenare in me un mondo".
Mi piace partire dal testo scritto per i miei lavori, è auspicabile; ma non sempre capita un testo che mi emozioni, mi scuota... In Calvino ho trovato molto di più: ho iniziato a leggerlo la sera, poi ho dovuto smettere perché la quantità di immagini che produceva nella mia testa e l'adrenalina che ne conseguiva erano tali da togliermi il sonno. Ho riempito quaderni di schizzi, ogni immagine che vedevo o suono che ascoltavo lo associavo alle 'città invisibili', se ero in auto avevo l'audiolibro delle 'città invisibili', tanto per essere sicura di non aver frainteso niente dalle pagine scritte. Prima ho rappresentato le città che mi piacevano di più, ma non andava bene, allora ho scelto dei brani, li ho trascritti, appesi, lasciati sedimentare... Poi ho cominciato a fare delle prove tecniche, di colori e materiali, alcune deludenti, altre esaltanti, poi facevo altro, ma il pensiero era sempre lì... Proprio come quando uno s'innamora. Hai presente? Alcune volte ho fatto il processo inverso: ho creato le immagini e ho associato il brano in un secondo tempo. Dopo un anno circa, ho scelto e raccolto il materiale che a mio parere era più interessante e coerente per un'esposizione.
Complimenti e grazie ad Arianna, con l'augurio di un buon proseguimento del suo lavoro!