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Le conseguenze di una “safe zone” nel nord della Siria

Creato il 08 settembre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Lorenzo Marinone

Il nodo più controverso nell’accordo raggiunto alla fine di luglio fra Stati Uniti e Turchia sulla lotta allo Stato Islamico (IS) riguarda l’istituzione di una “safe zone” lungo parte del confine turco-siriano. L’area in oggetto dovrebbe verosimilmente essere compresa fra Azaz e Jarablus, per una profondità di circa 30 chilometri, arrivando quindi fino alle porte di Aleppo. Questa zona cuscinetto è stata annunciata ufficialmente più volte da Ankara e altrettante volte è stata smentita dagli Stati Uniti [1]. Tali dichiarazioni contrastanti non negano, ad ogni modo, un impegno sul campo oltre che attraverso raid aerei. Infatti, entrambi i Paesi stanno fornendo supporto militare di vario tipo a diverse formazioni ribelli, con lo scopo specifico di liberare l’area dallo Stato Islamico.

Gli Stati Uniti hanno definito l’impegno della Turchia come un game-changer. In effetti la disponibilità della base militare turca di Incirlik, distante circa 500 chilometri in linea d’aria da Raqqa, l’autoproclamata capitale dell’IS, permetterà agli americani e agli altri membri della coalizione internazionale di condurre in modo più efficace i raid aerei contro il Califfato. Inoltre l’accordo prevede l’impegno di Ankara a blindare i propri confini nella parte attualmente sotto il controllo delle milizie di Abu Bakr al-Baghdadi. In questo modo all’IS verrebbe sottratta una seconda, importante via di rifornimento, dopo la conquista del valico di Tal Abyad da parte dell’Unità di Protezione Popolare (YPG) – la forza di combattimento curdo-siriana –, aumentandone l’isolamento. Questo punto è coerente con la strategia americana volta a “degradare” progressivamente le forze dello Stato Islamico e per Washington è chiaramente prioritario rispetto all’istituzione formale di una safe zone, piuttosto impegnativa da difendere.

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Possibile estensione della “safe zone” nel nord della Siria

Proprio i successi delle milizie curde hanno rappresentato un fattore importante nella decisione della Turchia di svolgere un ruolo di primo piano nel conflitto siriano. Infatti, dopo la riunificazione dei due cantoni curdo-siriani di Kobane e Qamishli, il timore di Ankara è che l’YPG oltrepassi l’Eufrate e tenti di creare un collegamento con Efrin. Se ciò avvenisse, la Turchia dovrebbe fare i conti con la creazione de facto di un’entità curdo-siriana a ridosso dei propri confini, capace di creare instabilità interna ravvivando le richieste di una maggior autonomia (se non istanze separatiste) dei milioni di curdi che vivono nel sud-est del Paese.

Quale attore si farà carico di combattere sul campo, dunque di liberare l’area dall’IS e successivamente di difenderla? L’unico accordo in merito tra Turchia e Stati Uniti, per il momento, pare essere una conventio ad excludendum: non i curdi, benché si siano dimostrati finora i più efficaci boots on the ground tanto in Siria, tanto in Iraq. Per Washington tale scelta appare pressoché obbligata, non soltanto perché coinvolgere l’YPG avrebbe certamente significato l’opposizione della Turchia, ma anche affinché le milizie curde non disperdano eccessivamente le proprie forze e possano quindi concentrarsi sulla sola difesa dei territori che controllano attualmente. Inoltre, tale mossa permette agli Stati Uniti di perseguire ancora una volta la propria strategia di alleanze locali nella scelta delle fazioni da appoggiare, tesa ad escludere le milizie fautrici di un islamismo più estremista.

Come in passato, però, anche in questo caso il programma americano di addestramento di ribelli siriani si è rivelato fallimentare. I primi 60 combattenti entrati in Siria all’inizio di agosto, che formano la Divisione 30 (chiamata anche New Syrian Force), sono stati pressoché annientati da Jabhat al-Nusra (JaN), la filiale di al-Qaeda in Siria, formazione in lotta contro lo Stato Islamico nella regione. Il Pentagono ha annunciato che nelle prime settimane di settembre sarà pronto un secondo contingente di un centinaio di uomini. Tuttavia si tratta di numeri chiaramente insufficienti per contrastare le milizie del Califfato, anche se supportati da frequenti interventi aerei. Nel frattempo, ufficialmente la Turchia agisce in parallelo armando alcune milizie di etnia turca, come la Brigata Sultan Murad e la Brigata Seljuk. Quest’ultima fa parte della coalizione Jaysh al-Thuwar, composta da numerose fazioni prima inquadrate nel Free Syrian Army, con una forte componente proveniente dal disciolto Harakat Hazzm. In buona sostanza, si tratta di elementi attivi in precedenza nella zona di Idlib ed erano già stati appoggiati dagli Stati Uniti, senza successo. Tuttavia, anche sommando queste esigue brigate alla Divisione 30, il numero dei combattenti appare ancora troppo esiguo per contrastare efficacemente l’IS [2].

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Controllo territoriale in Siria

Sembra quindi impossibile aggirare la necessità di appoggiarsi ad altre fazioni di ribelli già presenti in teatro. Tra di esse le più strutturate ed efficienti dal punto di vista militare sono JaN e Ahrar al-Sham (AaS). Tali gruppi, in passato, hanno ricevuto il supporto di alcuni Stati del Golfo come Qatar e Arabia Saudita e soprattutto della Turchia. Il loro atteggiamento verso queste formazioni ribelli di orientamento islamista risponde alla necessità di mantenere stabilmente sotto pressione il regime di Assad, senza tuttavia permetterne un eccessivo indebolimento, che di fatto creerebbe un vuoto dal quale trarrebbe il maggior vantaggio lo Stato Islamico. Infatti, il supporto di questi Stati è diminuito ogniqualvolta Damasco ha dovuto sguarnire alcune aree attorno a Damasco e nel sud del Paese per difendere la zona di Latakia [3]. Non va quindi sottostimata la possibilità che la Turchia, qualora volesse seguire una propria agenda almeno in parte divergente da quella americana, si appoggi a tali formazioni per raggiungere i suoi scopi.

Tuttavia, il coinvolgimento più o meno diretto di JaN e di AaS nella creazione di una safe zone potrebbe avere effetti importanti sugli attuali equilibri militari nella guerra civile siriana. Infatti, nonostante i due gruppi collaborino da anni e condividano il coordinamento politico e militare delle proprie attività, rispetto all’annunciato intervento turco-americano hanno atteggiamenti differenti.

Per quanto riguarda Jabhat al-Nusra, gli avvenimenti delle ultime settimane evidenziano la sua netta contrarietà a un intervento guidato dalle potenze occidentali. Infatti, dopo aver bloccato la Divisione 30, il quartier generale di JaN ad Azaz è stato bombardato dagli Stati Uniti. Al-Nusra ha quindi condotto un’azione di rappresaglia contro le fazioni curde poste a difesa della vicina Efrin, ma dal valore più che altro simbolico dato che l’8 agosto si è ritirato dal fronte della costituenda safe zone lasciando le postazioni ad AaS [4].

La mossa, oltre a palesare l’insostenibilità di uno scontro frontale con gli Stati Uniti, apre alla possibilità di un ulteriore indebolimento del gruppo. Infatti, di fronte all’impossibilità di continuare le proprie operazioni, è possibile che si verifichino defezioni in favore dell’IS. Per il gruppo di Abu Mohammad al-Julani si tratta di una dinamica già subìta in passato (all’inizio del 2014, quando l’IS prese il controllo di Raqqa) e agevolata dalla contiguità ideologica tra le due formazioni. Il rischio maggiore di questa emorragia di uomini è il riemergere di tensioni interne al gruppo, che possono contrapporre nuovamente la leadership militare a quella politica e, potenzialmente, metterne seriamente a repentaglio l’esistenza stessa [5]. Di ciò si può chiaramente avvantaggiare lo Stato Islamico. Nel breve periodo l’afflusso di informazioni precise sullo stato di salute generale del gruppo rivale e delle altre fazioni con cui è alleato, nonché delle postazioni e degli armamenti disponibili, permetterebbe ai miliziani del Califfato di calibrare attacchi mirati e più efficaci. Non è da escludere che l’uso di armi chimiche a Marea risponda alla volontà di massimizzare questo vantaggio, spingendo altri elementi di JaN a defezionare.

Completamente opposta, invece, sembra essere la reazione di Ahrar al-Sham. Infatti, questa fazione non solo ha diramato un comunicato in cui appoggia ufficialmente la formazione della safe zone, ma nelle ultime settimane ha tentato di modificare in positivo la percezione che l’Occidente ha della sua impostazione ideologica e dunque del suo grado di pericolosità. Con due interventi sul Washington Post e sul Telegraph il gruppo ha tentato di accreditarsi come opposizione moderata, sminuendo la portata della sua alleanza con Jabhat al-Nusra, e proponendosi come difensore delle minoranze nel futuro assetto della Siria [6]. Se, nell’immediato, l’appoggio di un gruppo come AaS nella lotta all’IS può rivelarsi determinante ai fini della costituzione della safe zone, nel medio periodo ciò potrebbe modificare alcuni equilibri nella guerra civile, non solo nel nord della Siria.

Infatti, l’esclusione di JaN a vantaggio di AaS, e un conseguente rafforzamento di quest’ultimo, potrebbe far nascere frizioni fra i due gruppi. Questa eventualità potrebbe avere ricadute sulla coalizione Jaysh al-Fatah, di cui costituiscono il grosso delle forze, destabilizzando l’intera provincia di Idlib dove governano assieme. Se ciò si verificasse, l’esercito di Assad avrebbe relativa facilità nella controffensiva nella piana di al-Ghab, più volte tentata nelle ultime settimane ma senza successo. In tale contesto sarebbe complesso, per la coalizione internazionale, mantenere l’IS come unico obiettivo e parte dell’impegno militare delle fazioni sul campo verrebbe dirottato contro Assad. Bisogna inoltre considerare che un eventuale dissoluzione dell’alleanza fra JaN e AaS avrebbe ripercussioni anche in altre zone del Paese, segnatamente al sud nell’area di Dara’a, dove negli ultimi mesi le fazioni ribelli sono riuscite a controllare tutti i valichi al confine con la Giordania e sono assestate alle porte di Dara’a, ancora controllata dal regime. Anche in questo caso, sarebbe proprio lo Stato Islamico l’attore che potrebbe trarre maggiore vantaggio da tale destabilizzazione.

* Lorenzo Marinone è Analista di Relazioni Internazionali e OPI Contributor

[1] N. Tattersall & P. Stewart, Turkey, U.S. aim for zone cleared of Islamic State in northern Syria, in “Reuters”, July 27, 2015; G. Solaker, U.S. denies reaching agreement with Turkey on Syria ‘safe zone’, in “Reuters”, August 11, 2015.

[2] J. White, The New Syrian Force: Down but Not Necessarily Out, in “The Washington Institute for Near East Policy”, August 11, 2015.

[3] L’esempio più recente di tale strategia è l’andamento dei successi militari della coalizione Jaysh al-Fatah nell’area di Idlib. Nell’arco di poche settimane, fra marzo e aprile 2015, la coalizione guidata da Jabhat al-Nusra ed Ahrar al-Sham è riuscita a conquistare prima il capoluogo, quindi l’importante snodo di Jisr al-Shugur assestandosi a poca distanza dalla zona costiera di Latakia, per proseguire con un’offensiva verso sud, nella piana di al-Ghab, di importanza strategica per il prosieguo delle operazioni verso Hama e Homs. I facili e rapidi successi delle prime settimane sono in netto contrasto con lo stallo sostanziale in cui si trova attualmente l’offensiva. Parallelamente, l’indebolimento del regime, costretto a concentrare le difese a nord, ha permesso allo Stato Islamico di guadagnare terreno nella Siria centrale, conquistando Tadmur e arrivando in prossimità delle maggiori città controllate da Assad.

[4] T. Joscelyn, Proposed buffer zone leads al Qaeda to withdraw fighters from northern Aleppo province, in “The Long War Journal”, August 10, 2015.

[5] A. Lund, The Nusra Front Internal Purges, in “Carnegie Endowment for International Peace”, August 7, 2015.

[6] Cfr. L. al-Nahhas, The deadly consequences of mislabeling Syria’s revolutionaries, in “Washington Post”, July 10, 2015; L. al-Nahhas. I’m a Syrian and I fight Isil every day. It will take more than bombs from the West to defeat this menace, in “The Telegraph”, July 21, 2015.

Photo credits: Reuters

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