Pubblicato da massimomaugeri su giugno 5, 2012
Quando lasciate per sempre un posto che vi è caro, ascoltate il mio consiglio: usate qualunque mezzo, l’aereo, l’automobile, il treno, un rombante sidecar, l’autobus di linea, la metropolitana, ma non la nave. C’è nella commozione del distacco – salutare i familiari, sapere che i luoghi che sono stati vostri, nei giorni luminosi, e in quelli oscuri, non saranno più scena quotidiana – un dolore vivo; partire, si dice, e un po’ morire. Lo sguardo frettoloso della hostess che vi sollecita a passare ai controlli del gate in aeroporto, la svolta improvvisa del taxi, il buio della galleria in metropolitana e l’uscita dalla stazione ferroviaria recidono decisi il commiato. La nave no. Se la serata è serena, mentre il rimorchiatore pilota il piroscafo lentamente fuori dal porto, potete vedere sulla banchina le persone che vi hanno accompagnato salutare e sforzarsi di sorridere, per incoraggiarvi, per nascondere la nostalgia già forte, mentre gli adulti abbracciano i bambini in lacrime: tutti vorrebbero piangere, ma solo a loro e consentito farlo.
- Gianni, il titolo del tuo nuovo libro è già abbastanza indicativo: “Le cose che ho imparato”. Lo è ancora di più il sottotitolo “Storie, incontri ed esperienze che mi hanno insegnato a vivere”. Perché hai deciso di raccontare “le cose che hai imparato” proprio in questa fase della tua vita?
Un perché non c’è. Penso che in questi tempi di transizione riflettere su passato, presente e futuro, ragionare di coraggio e paura, mercato e lavoro, comunicazione e caos, famiglia, comunità, società, fosse importante e l’ho fatto. Penso sia utile capire da dove veniamo e dove stiamo andando, senza paure, senza illusioni.
- Questo libro è anche l’omaggio di un figlio a un padre che non c’è più. Tuo padre si chiamava Salvatore, detto Totò, e faceva anche lui il giornalista presso “Il Giornale di Sicilia”. Qual è l’eredità più importante che ti ha lasciato?
Mio padre era un uomo migliore di me, in tutto. Un fisico, matematico, ingegnere navale, ufficiale di Marina che solo il caos del dopoguerra affidò al giornalismo, complice il lavoro fatto con gli americani dello Psychological Warfare Branch di Ugo Stille, nel 1943. Mi ha insegnato la tolleranza, l’equanimità, la voglia di capire, l’umiltà, il controllare i fatti senza farsene conquistare, la diffidenza per i demagoghi e le ideologie, il no alla violenza, tutte le violenze. In nessuna di queste virtù io l’ho raggiunto: ma è stata una fortuna, per uno della mia generazione, avere un maestro così. Quando è morto, dopo anni di volontariato aiutando anziani malati che spesso stavano meglio di lui, la chiesa era stracolma, la strada intera ferma, i negozi chiusi. Un cardinale, incontrato per caso in aeroporto, mi ha detto severo “Suo padre, Riotta, era un uomo di Dio!”. Meglio non rivaleggiare, si perde comunque.
- Uno dei capitoli si intitola “New media Old values”. Che rapporto c’è tra i nuovi media e i vecchi valori? E quali sono i pro e i contro dell’avvento di Internet e del digitale?
Domandona. La transizione da old media a new media, da tv e giornali a web e social network è più rapida di quanto avessimo capito. Inutile fermarla, è già il presente. Serve imparare la lezione che ci viene dal mondo digitale, serve usarne la ricchezza enorme di comunicazione, i contatti, i mondi che apre, pensa a Wikipedia, Google, twitter, senza però dimenticare la serietà, il professionismo, la lealtà, la tolleranza. New media, old values.
- Nel libro citi una sorta di lezione che ricevesti da Vittorio Foa e che hai sintetizzato con questa frase: “ascoltare sempre, fidarsi delle idee, scommettendo non sul prestigio della cattedra che occupiamo in quel momento, ma sulla loro bontà”. Come andò in quell’occasione con Foa?
Foa era un maestro, antifascista detenuto, partigiano, padre della Costituente, segretario della Cgil. In anni in cui l’intolleranza dominava seppe ascoltare le mie -sceme- critiche da studentello, e poi anni dopo, spiegò a ragazzi che potevano essere miei figli e suoi pronipoti, come guardare alla realtà senza paraocchi.
- Come lo descriveresti, oggi, il tuo rapporto con il tuo luogo d’origine? Con la Sicilia?
Domandonissima! Sono nato e cresciuto in Sicilia. A chi mi chiede nel mondo, ma lei è di origini siciliane, obietto sempre, no, io sono siciliano. La comunità, la cultura, il coraggio, la tradizione, la bellezza della Sicilia è un dono che chiunque sia nato nell’Isola si porterà sempre dentro. Il male che c’è in Sicilia, la criminalità, lo spreco, la politica corrotta, le clientele, non sono invincibili. È il lavoro, è la cultura che cambieranno la Sicilia, terra che può passare dalle difficoltà di oggi allo sviluppo grazie proprio alle nuove tecnologie, al turismo, all’agricoltura preziosa. Ma occorre smettere di fingere che le colpe siano altrove, rimettersi al lavoro, inventare. La vecchia Isola ce la farà: sono ottimista.