Neanche un anno fa la Banca Mondiale e l’istituto di credito statunitense Morgan Stanley avevano previsto che la crescita economica dell’India avrebbe superato quella della Cina in pochi anni. Il sub continente risponde a questa prospettiva con tassi di crescita del 8% l’anno, arrivando al 9,2% nel primo trimestre del 2011. Da quello stesso momento, tuttavia, qualcosa comincia a cambiare: il primo segnale è il PIL che scende, assestandosi ad un 6%. La flessione non tende ad arrestarsi, anzi: l’ultimo aggiornamento trimestrale del Fondo Monetario Internazionale sull’economia mondiale ha evidenziato una frenata generale dell’intero panorama dei BRIC. All’interno di questi chi se la passa peggio è sicuramente l’India.
Il fosco quadro attuale dell’economia indiana
Secondo le previsioni del FMI la crescita dell’economia del subcontinente presenterà un ulteriore taglio dello 0,7%. Il dato più rilevante riguarda il 5,3% ottenuto nei primi mesi del 2012, una cifra che per l’economia di New Delhi non rappresenta solo un ulteriore rallentamento, ma che evidenzia anche il peggiore risultato degli ultimi nove anni. Stiamo pur sempre discutendo di risultati ben al di sopra delle prestazioni di molti Stati occidentali; tuttavia un Paese in Via di Sviluppo con 1,2 miliardi di abitanti potrebbe aver bisogno di ben altri ritmi di crescita. Il tasso di crescita non è il solo dato eloquente sull’attuale e difficile situazione che dovrà affrontare il Premier Singh: nell’ultimo anno il deficit fiscale è passato dal 4,8% al 5,9% del PIL, mentre il deficit commerciale ha toccato quota 10,9%. L’indebitamento pubblico è arrivato al 70% e il calo di investimenti ha mostrato la debolezza della rupia, che negli ultimi dodici mesi ha perso il 20% nei confronti del dollaro. Questo ha comportato, da parte degli investitori stranieri, una ritirata in tre mesi di 350 milioni di dollari dalla Borsa di Mumbai, quando nello stesso periodo dello scorso anno erano stati investiti 1,5 miliardi di dollari. Il tasso di inflazione è arrivato al 7,2%, il più alto tra i Paesi BRIC. Un aspetto particolarmente significativo riguarda il tasso di disoccupazione che si avvicina al 10%. Questa cifra, per uno Stato che ha superato il miliardo di abitanti, di cui un numero considerevole ha meno di venticinque anni, significa centinaia di migliaia di giovani alla ricerca di un’occupazione.
Appare comunque prematuro affermare un declino del gigante indiano solo valutando questi dati; tuttavia, è vero che l’India comincia a risentire dei problemi strutturali interni che da tempo rappresentano il tasto dolente della più grande democrazia del mondo. Quali sono questi punti critici che attualmente frenano l’India? Laddove non si provveda a porvi rimedio, quanto potranno essere determinanti per il futuro del Paese e dell’economia mondiale?
Cosa ha permesso il miracolo indiano e cosa potrebbe arrestarlo: un fragile sistema composto da nuovi input e “vecchi” problemi
Investimenti ed esportazioni: questi sono stati i due cavalli di battaglia del subcontinente negli ultimi anni. All’interno del boom indiano un ruolo rilevante è stato giocato dalle liberalizzazioni dei primi anni novanta, che hanno comportato significativi flussi di investimento anche in seguito alla presenza di in una rilevante base di disponibilità liquida. Un buon sistema di controlli finanziari ha permesso al Paese di uscire indenne sia dalla crisi asiatica del ’97/’98 sia da quella del 2008. Ciò che ha permesso a New Delhi di scalare la vetta dell’economia internazionale è stata anche – se non soprattutto – una produzione basata sull‘outsourcing, una bassa valutazione della moneta locale e un’enorme piattaforma di consumo interno. Tuttavia, l’India presenta anche dei rilevanti lati oscuri: alcuni presenti da tempo ed insiti nella società indiana, altri risultanti da un’improvvisa crescita economica.
Certamente il primo grande problema riguarda l’economia sommersa e la dilagante corruzione all’interno della pubblica amministrazione. Quest’ultima, confrontata con quelle degli Stati del “miracolo d’Oriente”, è stata definita dal Political and Economic Risk Consultancy di Singapore come “la peggiore di tutta l’Asia”, occupando l’ultimo posto della graduatoria. In aggiunta a ciò, secondo la Global Financial Integrity di Washington, il mercato nero avrebbe fatto perdere all’India, dal 1947 ad oggi, circa otto miliardi di dollari l’anno. Secondo lo stesso istituto la dimensione del mercato nero indiano arriverebbe al 50% del PIL ufficiale. Alcuni osservatori vedono nel complesso sistema delle caste indiane uno dei motivi che potrebbero portare il Paese alla stagnazione economica e sociale. La casta qui intesa è differente rispetto ad una classe sociale o ad un gruppo socioprofessionale. Si discute bensì di un struttura sociale chiusa che comprende tre nozioni principali: endogamia o chiusura del gruppo tramite il matrimonio, specializzazione professionale e rigorosa gerarchia. Le caste più importanti svolgono un ruolo determinante all’interno dei processi decisionali del Paese, occupando la maggior parte degli spazi professionali, dalla dirigenza di aziende al giornalismo o ai ministeri. Il loro potere è particolarmente influente nelle campagne più arretrate, mentre tende ad affievolirsi man mano che ci si avvicina al mondo urbano, dove è più visibile la liberalizzazione dell’economia. Indubbiamente queste strutture presentano delle strategie conservatrici di difesa dei privilegi acquisiti.
L’eterna piaga dell’India riguarda poi la povertà: il 32,7% della popolazione vive sotto la soglia di povertà estrema di 1,25 dollari al giorno, mentre il 79.9% vive con meno di due dollari al giorno. Da un punto di vista internazionale il ritmo di riduzione della povertà indiana non è dei migliori: il Bangladesh ha fatto decisamente meglio dell’India e il divario è diventato evidente soprattutto nei confronti della Cina, dove il tasso di povertà si sarebbe ridotto dal 7 al 3% della popolazione nel corso degli anni Novanta. Non vanno meglio gli indici di sviluppo umano: secondo l’UNDP (United Nations Development Programme) l’India occupa, nella classifica mondiale per lo sviluppo umano, il 134°posto su 187 Paesi presi in considerazione. Analizzando i singoli componenti dello sviluppo umano il divario massimo riguarda l’istruzione, dove l’indice indiano è di 0,450 contro lo 0,70 per la media dei Paesi in Via di Sviluppo (confrontato con gli altri BRIC, la Cina si attesta sullo 0,623, il Sud Africa sullo 0,705 mentre il Brasile sullo 0,663). Questo è un aspetto che potrebbe comportare un serio ostacolo alla futura crescita del subcontinente, soprattutto alla luce dei 355 milioni di analfabeti che l’India ancora presenta.
Il grande male indiano? Una crescita “schizofrenica”
L’imponente crescita economica non ha portato solo benefici, ma ha anche comportato dei problemi cui l’India dovrebbe cercare di porre rimedio quanto prima. Per New Delhi un “effetto collaterale” della crescita è costituito dalla “schizofrenia” della diffusione del benessere: l’immagine dell’India è quella di un Paese che da un lato presenta lussuosi e dinamici centri urbani, dall’altro una povertà di massa che riguarda centinaia di milioni di persone. La distribuzione disuguale dei redditi e dei consumi è allarmante. La crescita si è concentrata intorno ad una decina di regioni e a tre territori dell’unione: il Kerala e tutte le regioni meridionali hanno indici di sviluppo simili a quelli della Cina, mentre le aree del Bimaru (Bhiar, Madhya Pradesh, Rajastan e Uttar Pradesh) sono al livello dell’Africa subsahariana. Quest’ultime sono realtà demografiche importanti, poiché da sole contano il 42% della popolazione indiana e più del 50% dei suoi poveri.
Il primo grande fattore all’origine del disequilibrio tra le città e le zone rurali riguarda il netto rallentamento dell’agricoltura: la produzione di questo settore si è infatti ridotta dal 3,1% degli anni 1980/90 a meno dell’1% del decennio seguente. L’India necessita di una maggiore crescita, e allo stesso tempo, di una sua migliore distribuzione per arginare la piaga della povertà e per allargare il mercato interno.
La disuguaglianza regionale e l’incremento demografico sono altresì alla base di due rilevanti fenomeni: l’urbanizzazione e la migrazione interna. I poli urbani, che presentano maggiori possibilità lavorative e migliore sviluppo, stanno vivendo un notevole incremento della propria popolazione. Un centro come New Delhi accoglie ogni anno quasi 400.000 emigranti, mentre l’Uttar Pradesh si è svuotata di diversi milioni di abitanti. Questo comporta una forte pressione migratoria che, dalle zone del nord e del sud, preme verso ovest, in direzione di alcune megalopoli. Il fallimento dello sviluppo delle città medie, nel territorio rurale, è evidente. D’altro canto, le megalopoli hanno cominciato a presentare visibili livelli di saturazione, con la metà della propria popolazione costretta a vivere in baraccopoli o slums. I numeri della migrazione parlano chiaro: una città come New Delhi nel 1947 aveva 400.000 abitanti; nel 1991 è passata ad averne 8,4 milioni; 12,8 milioni nel 2001 e dovrebbe diventare la più popolosa città indiana nel 2026, con ben 36,2 milioni di abitanti. Si stima che nel 2026 l’India conterà nove città con oltre dieci milioni di abitanti.
Questo quadro metterà l’India alle strette su diversi fronti. Uno scenario del genere, inevitabilmente, aumenterà infatti notevolmente la domanda di energia: uno stabile approvvigionamento energetico, altro grande problema irrisolto, dovrà essere un obbligo. Del resto il subcontinente è frequentemente alle prese con estesi blackout che paralizzano imprese e servizi. L’ultimo, il più grande mai avvenuto in India e non a caso definito “la madre di tutti i blackout”, si è verificato qualche giorno fa, lasciando 360 milioni di indiani senza corrente elettrica. Il problema non è esclusivo delle zone più arretrate ma colpisce anche le zone più industrializzate, dove hanno sede le più grandi multinazionali del Paese.
Infine, ma non per ordine di importanza, le inadeguate infrastrutture e l’ambigua posizione sul protocollo di Kyoto sono due ulteriori aspetti di cui l’India dovrà tenere conto. Riguardo la sfida sull’ambiente è da tenere presente che il Paese dispone della seconda superficie mondiale coltivata (il 60% del suolo indiano è coltivato) e del maggior numero di capi d’allevamento del mondo (450 milioni di animali). Il fatto che, nel 2012, il 63% del territorio indiano ha registrato precipitazioni inferiori alla media pone la tematica ambientale come un fenomeno da non sottovalutare.
Dunque il colosso indiano starebbe cominciando a mostrare le prime crepe, che decisamente non possono essere definite come nuove. Tappare i buchi potrebbe non bastare più. Rispondere tempestivamente alle vecchie e nuove sfide e, allo stesso tempo, pensare ad un rinnovamento della struttura sociale del Paese può essere la strada giusta da seguire. In caso contrario potrebbe non essere solo l’India a pagare le conseguenze di un eventuale inerzia. A risentirne potrebbe essere l’intera economia mondiale.
Stefano Martella
* Stefano Martella è Dottore in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali (Università del Salento)
Per approfondire:
ICE, scheda Paese India
Ministero dello Sviluppo Economico, Dossier India – L’impresa verso i mercati internazionali, 2011
Giovanni Mafodda, India, il rischio di una promessa tradita, Limes – Rivista italiana di geopolitica, 25.07.2012