Si apre un altro fronte nella campagna per le presidenziali americane. A poche settimane dall’Election Day, i repubblicani ingrossano il fascicolo contro Obama per il fallimento nella gestione dell’attacco all’ambasciata americana a Bengasi. Risale ad appena un mese fa l’assedio dove hanno perso la vita l’ambasciatore Christopher Stevens e altri quattro americani. La gravità dell’episodio, verificatosi in concomitanza con il tragico anniversario dell’undici settembre, non smette ancora oggi di suscitare profonde polemiche nell’arena statunitense in pieno terremoto elettorale.
Gli esponenti del Grand Old Party, con in testa Ron Paul e Mitt Romney, hanno, infatti, mosso una nuova accusa ad Obama, già azzoppato dall’ultimo perdente duello contro il rivale repubblicano.Inizialmente Washington aveva affermato che l’attacco all’ambasciata fosse stato causato da sommosse anti-americane per via della pellicola contro Maometto, girata da un regista americano di origini egiziane. Ogni ipotesi di recrudescenze terroristiche veniva rifiutata e il nome di Al-Qaeda era meglio non menzionarlo. Solo nelle settimane successive, con l’emergere di nuovi fatti, è stato riconosciuto che l’episodio era il frutto di un attacco terroristico coordinato. Ma le contraddizioni fra quanto continua a dichiarare oggi la Casa Bianca e quanto trapela dalle fonti di intelligence sono troppe.
Non si capisce, ad esempio, perché nonostante i funzionari del Ministero degli Esteri abbiano ripetutamente chiesto alla Casa Bianca un rafforzamento delle misure di sicurezza in quel compound, Biden abbia messo le mani avanti sostenendo di non saperne nulla. Se quelle richieste fossero state ascoltate, forse l’attacco avrebbe avuto minori probabilità di riuscire. Oggi Romney punta il dito contro Obama chiedendo che venga fatta chiarezza ai cittadini. Ecco che una questione di politica estera, prima poco considerata, potrebbe diventare cruciale per la campagna elettorale. Stevens è stato il primo ambasciatore americano ad essere ucciso dal 1979. Prima di lui, Adolph Dubs, ambasciatore americano in Afghanistan, veniva nominato ambasciatore dopo il colpo di stato filosovietico a Kabul, sequestrato da un gruppo di miliziani e ucciso in una sparatoria durante il blitz per salvarlo.
Il problema di Obama, tuttavia, non è solo l’opacità di gestione nell’ultima crisi libica. Obama, all’inizio del suo mandato di presidente, aveva puntato a distinguersi rispetto alla politica estera condotta dal suo predecessore. E in un discorso al Cairo, nel 2009, si impegnava a migliorare le relazioni degli Stati Uniti con il mondo musulmano e a usare i suoi poteri per lottare contro gli stereotipi negativi nei confronti dell’islam. Tuttavia, il bilancio tracciato alla fine del suo mandato, per molti è apparso fallimentare. Le accuse sono di non aver usato a fondo la diplomazia per condizionare gli eventi in Iran, Irak, Siria, Israele o Russia. Di aver ritirato le truppe dall’Iraq con eccessiva fretta, cosa che ha fatto recuperare terreno ad Al Qaeda. Di voler abbandonare l’Afghanistan giusta la scadenza del 2014, senza poter rimodulare l’impegno in base alle condizioni di sicurezza del Paese. E ancora di aver adottato un contegno di passività, piuttosto che di partnership, con i paesi alleati.
Con la piega che ha preso il dibattito, per Washington la questione dell’attacco in Libia è un’ulteriore gatta da pelare. Ma quanto questa possa influenzare gli elettori rimane ancora un’incognita. Il gradimento della politica estera di Obama dopo l’attacco è sceso dal 54% dello scorso agosto al 49% attuale, mentre la disapprovazione è salita dal 40 al 46%, secondo un sondaggio condotto dalla NBC News a fine settembre. Il contegno di Obama in risposta alle accuse è cruciale ai fini di una eventuale virata sulla corsa alle presidenziali.
YC