Quando riesco a fermarmi prima di cedere ad un impulso di acquisto, di lettura, di alimentazione, di visione che promette molto a poco prezzo compio un atto di volontà e rompo uno schema di consumo radicato e difficile da riconoscere. Tessuti che dopo tre lavaggi son da buttare via, sapori contraffatti che non sfamano ma iper-nutrono, parole scritte in fretta e lette ancora più velocemente, musiche scialbe sostenute da ritmi ipnotici che svaniscono dalla mente senza lasciare altra traccia se non il tempo sciupato a dar loro retta.
Quando invece resisto e procrastino l’aspettativa fino al momento in cui posso scegliere qualcosa che forse costa di più ma durerà nel tempo e, dopo molti utilizzi, ancora svolgerà egregiamente la propria funzione di elettrodomestico, abito, scarpa, melodia, parola mi rendo conto che sono intrappolata in una ragnatela fitta di condizionamenti culturali, di incitazioni a delineare bisogni fasulli, di istigazione all’ottenimento del tutto, subito e per poco, fino all’impulso successivo.
Ieri non ho fatto niente di particolarmente difficile, forse più costoso in termini di tempo e di denaro che non rimanere a casa come la maggior parte delle sere. Eppure ho ricevuto moltissimo in termini di guadagno a lunga distanza. Ho guidato l’auto per un centinaio di chilometri, parcheggiato , passeggiato in centro a Verona, sbafato un gelato artigianale a merenda e un piatto di tortellini a cena, curiosato tra i monumenti del centro in mezzo ai turisti e i locali che approfittavano dei primi saldi, annusato profumi ricercati che lasciano sulla pelle impronte delicate e poco profonde ma persistenti per ore e ore, contemplato il fiume dalle acque grigio azzurre che accarezzavano gli argini rossi di mattoncini e tramonto. Poi ho assistito ad una rappresentazione, tra le pietre antiche del Teatro Romano. Davano Il Mercante di Venezia, con Silvio Orlando, nei panni di un umanissimo Shylock, e con un ottimo gruppo di attori che mi ha regalato due ore e mezza di puro piacere intellettuale. Shakespeare lo sto scoprendo a poco a poco: ogni tanto di fronte ad un palcoscenico, ogni tanto in qualche adattamento televisivo. Ogni volta mi colpisce l’immortalità delle trame, dei personaggi, dei comportamenti. Ogni volta, sentendo qualche passaggio, mi viene la pelle d’oca, come, in questo caso, nel monologo famoso in cui un uomo perseguitato denuncia la persecuzione e chiede spiegazioni per la supposta differenza. Ogni volta rifletto, mi procuro il testo per leggerlo, salto da questo ad altre opere, imparo, ragiono, correggo certi miei pensieri o li amplifico e li rinsaldo. Capita, mentre ancora sono fresca di suggestione, di accendere il televisore per ascoltare un telegiornale e subito inciampo nel solito rumore di fondo, nella nullità delle rappresentazioni luccicanti e nella inconsistenza delle serie e dei reality e li percepisco come dissonanti, fastidiosi. Vorrei riuscire a spazzare via tutto quanto mi circonda che occupa ma non riempie e, col passare del tempo, inquina, corrode. Non so se capite, non so nemmeno quanto spesso riesco a mettere a fuoco questa esigenza e quanto a lungo riesco a soddisfarla, tante sono le carabattole materiali ed immateriali che mi circondano.
Ma fino a quando ascolto parole e le riconosco come immortali, fino a quando rido alle battute di una commedia e mi alzo, alla fine della rappresentazione, sapendone riconoscere i toni della tragedia, dietro un lieto fine di facciata che maschera la sconfitta dell’amore vero, dell’uguaglianza tra gli uomini, della forza dell’amicizia ho sempre speranza per me e per la mia capacità di riuscire a discernere tra l’oro, l’argento e il piombo quale di essi valga di più.
Il primo, d’oro, reca questa scritta:
“Chi sceglie me avrà ciò che molti agognano“.
Il secondo, d’argento, ha questo avviso:
“Chi sceglie me s’avrà quel che si merita“.
Il terzo, tutto di pesante piombo,
porta a sua volta questa secca scritta:
“Chi sceglie me sarà obbligato a dare
ed arrischiare tutto quel che ha“.
Come fare per sceglier quello giusto?