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Le derive dell’estremo. Parte 4: Lo splatter classico e le nuove pieghe della violenza.

Creato il 02 dicembre 2013 da Fascinationcinema

5. L’estremo anni ’80: lo splatter classico, i video nasties e la funzione censoria

Come si è già detto più volte, il grande schermo riflette sempre una data società in un particolare momento storico, e le modalità di rappresentazione della violenza sono tra gli esempi più esplicativi in merito, nel dare un quadro d’insieme. Il cinema è in continuo mutamento e così i gusti del pubblico: in ambito orrorifico, anche la percezione di cosa sia “estremo” o “disgustoso” è suscettibile di cambiamento, sia per i già citati fattori di assuefazione alla componente violenta che per i contesti esterni. Lo splatter anni ’80 funge da esempio particolarmente azzeccato al fine di illustrare questo tipo di passaggio, lo stesso che ha avuto luogo nell’ horror convenzionale (ciò che terrorizzava il pubblico 50 anni fa, ora fa sorridere, in molti casi), ma con alcune caratteristiche peculiari.

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Il regista neozelandese Peter Jackson è stato il re incontrastato dello splatter dissacrante ed ironico, ovviamente ben prima di approdare nelle lande di Tolkien, con tre film di cui due fondamentali: Fuori di testa (Bad taste, 1987), Splatters – Gli Schizzacervelli (Braindead, 1992) ai quali si aggiunge il meno noto ma geniale Meet the feebles (1989), sorta di Muppets Show a base di sesso, violenza e humor nero. Dagli alieni cannibali di Bad taste alla scimmia-ratto di Braindead, i film di Jackson andavano oltre la frontiera del disgusto poiché il gore era palesemente finto, fumettistico e assurdo: non erano comunque per tutti i palati, anche perché non lasciavano tregua allo spettatore, e divennero cult per gli appassionati dell’estremo, dell’horror non sdoganabile e assolutamente adatto per l’allora neonato mercato home-video. Anche il celeberrimo La casa (The evil dead, 1981) di Sam Raimi, fu un pugno nello stomaco per l’epoca, restando inedito in Germania, nella sua versione uncut, per circa dieci anni (uscì pesantemente tagliato nel 1992); d’obbligo citare Re-animator (1985), di Stuart Gordon, liberamente tratto da Herbert West: Re- animator di H.P. Lovecraft, con le sue numerose sequenze disturbanti, e il bellissimo Society (1989), di Brian Yuzna, critica ultra-splatter all’alta società di Beverly Hills. Film che oggi sono considerati horror popolari e di largo consumo (forse soltanto Re-animator e Society, tra quelli citati, sono ancora in grado di risultare disturbanti), ma che all’epoca scatenarono sia le forbici censorie che il disgusto di parecchi spettatori.

Pellicole che oggi possono sembrare ingenue, poiché si giocava sull’effettaccio ma veniva lasciata da parte la componente sadica e malsana, che caratterizza il cinema estremo contemporaneo: atmosfere malate, umiliazioni, sequenze realmente respingenti, quasi una gara a chi si spinge più in là o al “non c’è limite al peggio”. Gli anni ’80 erano l’era dell’edonismo, dunque anche l’horror considerato “di nicchia” puntava sull’intrattenimento, sul voler raccontare storie e soprattutto sull’ironia, che ora come ora sembra essere davvero la grande assente da questo tipo di produzioni: tutto si prende dannatamente sul serio, col solo scopo di sconvolgere lo spettatore, ma il più delle volte i risultati che si ottengono sono soltanto rifiuto, oppure una mortale noia.

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Sempre negli anni ’80, nel Regno Unito (precisamente nel 1982), ebbe inizio la vicenda dei video nasties, termine coniato dall’attivista conservatrice Mary Whitehouse per designare i film a contenuto violento destinati al mercato home-video il quale, fino a quel momento, non era stato soggetto a nessun tipo di regolamentazione censoria. Ne derivò il Video Recordings Act, un atto parlamentare del 1984 che consisteva in una serie di regole estremamente restrittive in base alle quali la BBFC (British Board of Film Classification), ossia la censura britannica, si riservava il diritto di approvare o meno la circolazione di determinate VHS per la vendita o il noleggio. Potevano uscirne pesantemente tagliate, o anche venire ritirate del tutto dal mercato. Ne risultò una caccia alle streghe, che vedeva coinvolte organizzazioni religiose, movimenti di genitori e ferrei conservatori. Inizialmente, la video nasties list comprendeva 72 titoli, che divennero 39 (conosciuti come i DPP39s), vale a dire quelli effettivamente perseguiti: citandone qualcuno, Antropophagus di Joe D’Amato, Cannibal holocaust di Deodato, Reazione a catena di Mario Bava, The driller killer di Abel Ferrara, Quella villa accanto al cimitero di Lucio Fulci, L’ultima casa a sinistra di Craven, Nightmares in a damaged brain di Romano Scavolini (notare la massiccia presenza italica, e se ne sono menzionati solo alcuni). Successivamente, nonostante alcuni rigurgiti in seguito a fatti di cronaca nera come l’uccisione del piccolo James Bulger (per il quale i giovanissimi killer presero falsamente a pretesto La bambola assassina 3) e il massacro di Hungerford (il killer, Michael Robert Ryan, era ossessionato dai film di Rambo), la censura inglese divenne più rilassata, anche grazie all’abbandono della BBFC da parte del “grande inquisitore” James Ferman. Tuttavia, il Regno Unito resta uno dei Paesi più restrittivi in materia, e la BBFC una delle commissioni più severe.

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La questione dei video nasties riporta all’annosa domanda di come la violenza su schermo (oppure in tv, sui libri o nei videogames) venga effettivamente percepita dal fruitore: “I film non creano psicopatici, i film rendono gli psicopatici solo più creativi”, recita una geniale frase nel film Scream (1996) di Wes Craven, opera che teorizza gli stilemi dell’horror contemporaneo, ironizzandovi e sottolineandone le caratteristiche. Fece scalpore il caso legato a Natural born killers (1994) di Oliver Stone, film che ispirò una serie di presunte emulazioni: la più conosciuta, è la rapina ad opera di una coppia di giovanissimi, Sarah Edmonson e Benjamin Darras, che costò la vita a William Savage, mentre la cassiera del supermercato, Patsy Byers, restò in sedia a rotelle: la Byers fece dapprima causa ai due rapinatori, dopodiché a Stone e alla Time Warner. Le compagnie cinematografiche e i cineasti sono protetti dal Primo Emendamento, dunque Stone e la Warner vennero assolti in prima istanza, ma la vittima fece ricorso in appello: la Corte ritenne valide le sue ragioni ma la donna morì di cancro nel 1997, e il caso fu ritenuto concluso. Natural born killers, inoltre, venne citato anche a proposito della strage di Columbine e della sparatoria del Dawson College, con pretesti debolissimi. Quante persone hanno visto il film di Stone e quante hanno effettivamente compiuto atti violenti? È la solita domanda, per la quale vi è come risposta la citazione da Scream, a cui si aggiunge che gli psicopatici non solo sono diventati più creativi ma anche più astuti, poiché il cinema è capro espiatorio perfetto al quale imputare la causa delle loro azioni.

 

6. Il cinema estremo oggi: millepiedi umani e August Underground

Hostel
L’ attacco dell’11 Settembre 2001 alle Torri Gemelle è stato un punto di svolta importante nella cinematografia horror mainstream targata USA: le produzioni si sono moltiplicate, assumendo un carattere spesso apocalittico, e i nuovi villain sono privi di moventi, a simboleggiare un senso di paura costante verso una minaccia in apparenza immotivata. Il torture porn vede la luce proprio in quel contesto, ed è un’ etichetta teorica più che un vero sottogenere: fu il critico David Edelstein a utilizzare il termine a proposito di Hostel (2005) di Eli Roth, film che non ha inventato nulla e che di certo non può essere definito uno shocker dagli spettatori più scafati, ma è visto come tale dal pubblico mainstream. La definizione in sé è stata spesso, e giustamente, oggetto di critiche, anche da parte dello stesso Roth, che ne ha sottolineato l’inesattezza, partendo dalla definizione enciclopedica del termine pornografia. E’ fondamentalmente un non-genere, che mette nel calderone slasher, remake, horror tradizionali: tutto quanto contenga prolungate scene di tortura e una vena di sadismo cade sotto questa fragile nomenclatura. Curioso notare come, cercando i termini “cinema estremo” in rete, in mezzo a titoli realmente appartenenti alla categoria, sbuchino pellicole che con l’estremo non c’entrano nulla, ma che sono state definite torture porn: sembrano essere diventate le due paroline ben poco magiche mediante le quali il mercato di massa confina ciò che gli sembra al limite. Ovviamente, a suo comodo, poiché la “pornografia della tortura” (che suona anche male) va alla grande ai box office, come già si diceva opportunamente ripulita, mondata, messa a lucido. Dal punto di vista tecnico, un’altra caratteristica che salta immediatamente all’occhio è il formato televisivo dei torture porn: un prodotto come Hostel è più simile alla puntata di un buon serial che a un film in senso tradizionale, si punta sul dettaglio, sull’inquadratura a effetto, sul condensare molti eventi in un arco di tempo relativamente ridotto. Lo shock facile, il montaggio rapido, la fotografia cupa ma altamente stilizzata, che ricorda da vicino alcuni videoclip, questi elementi valgono per la maggioranza dei torture porn in circolazione, se si aggiungono anche score accattivanti o soundtracks con brani metal/pseudo goth. Il termine torture porn è errato per sua natura poiché anche se vi è tortura, come si diceva opportunamente tirata a lustro, non vi è traccia di pornografia nel senso più ampio di “oscenità”: è davvero difficile trovare qualcosa di osceno in studenti un po’ scemi o ragazze procaci appese come prosciutti alla mercé dello psicopatico di turno, in una profusione di effetti speciali più o meno validi. L’Enigmista (Saw, 2004) di James Wan, se non altro aveva il pregio di mostrare una minima originalità e un po’ di creatività nelle sevizie, pur non inventando nulla di nuovo. Volendo essere provocatori, se si deve pensare a un film sulla tortura, deragliando dai binari che si stanno percorrendo, si citerà Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli (1977), girato e ambientato nel pieno degli anni di piombo, in cui Alberto Sordi, per vendicare la morte del figlio avvenuta nel corso di una sparatoria (nella quale non c’entrava nulla), prende in ostaggio il colpevole e lo sottopone a un calvario. E’ un film che fa male, davanti al quale questi filmetti scompaiono, poiché mostra il dolore che diventa vendetta e poi brutalità: la tortura ha un senso, una motivazione, un contesto. Non è oscena, bensì capace realmente di ferire.

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Unthinkable (2010), di Gregor Jordan, è ben lontano dalla marmaglia dei “pornotortura”, pur incentrandosi sulla vessazione fisica ma da un punto di vista politico: il cittadino americano Steven Younger (Michael Sheen), convertitosi all’Islam integralista, dichiara in un video di aver piazzato tre ordigni atomici in tre diverse città statunitensi. Lasciatosi catturare dall’FBI, viene sottoposto dapprima a interrogatori, poi a vere e proprie torture da parte di H. (Samuel Jackson), scatenando l’indignazione dell’agente speciale Helen Brody (Carrie-Ann Moss), che tenta di fermare i suoi metodi e, al tempo stesso, di far localizzare le bombe. Diritti umani che vengono polverizzati in nome della “sicurezza nazionale”, militari senza cervello, l’FBI che fa finta di non vedere. La tortura dunque è non solo contestualizzata ma usata come veicolo di una molteplicità di messaggi filmici, in un plot che ha l’abilità di disorientare lo spettatore sballotandolo da una fazione all’altra, anche quella “sbagliata” ossia il punto di vista di H. , personaggio che, nonostante tutto, non si riesce a detestare.

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Oltre al famigerato torture porn, l’odierno filmico del limite offre ben altro, nel bene e nel male, come si suol dire. The human centipede (First sequence), film olandese del 2009 diretto da Tom Six, ha dato uno scossone non indifferente in un periodo tutto sommato stantio e povero di spunti. Disturbante e unico nel suo genere, inizia come un qualsiasi horror, con due turiste americane in viaggio in Europa, che restano in panne con l’auto in mezzo a un bosco in Germania. In cerca d’aiuto, approdano a casa del Dr. Heiter (Dieter Laser): da qui inizia l’inaspettato, non avranno luogo le solite torture e non ci sarà una famiglia di cannibali ad attenderle. Heiter è un mad doctor che può finalmente realizzare l’esperimento già testato sui suoi tre cani: un millepiedi umano, tre persone collegate tra loro tramite gli orifizi anali e orali, e con un unico apparato digerente. Le due yankees capitano a pennello, poiché il dottore ha già un elemento per il suo progetto, un uomo giapponese che metterà a capo della catena. Non privo di ironia, ma mai comico o grottesco, The human centipede riesce a trasmettere un senso di orrore puro riducendo al minimo il disgusto, il che non è facile vista la tematica: Heiter è monoliticamente inespressivo e scientifico nello spiegare l’operazione che eseguirà ai tre malcapitati, e il suo pianto di gioia si mescola a quelli di disperazione delle sue vittime dopo la riuscita dell’impresa. E’ opera indubbiamente malsana ma anche consapevole e controllata, che non trascende in effettacci ma gioca tutto sulla follia: in questo caso, non si mette in scena l’inguardabile bensì l’impensabile, qui sta la genialità della trovata del regista. E’ film che resta con lo spettatore anche a visione avvenuta, che lascia una traccia, e che spinge a pensare. Il secondo capitolo (poiché si tratta di una trilogia), The Human centipede 2 (Full sequence), del 2010, è probabilmente anche superiore al precedente, trovando la sua forza nell’autocitazionismo e in una certa dose di autoironia: protagonista è Martin Lomax (Laurence R. Harvey), guardiano di un posteggio londinese e ossessionato dal primo Human centipede, al punto da voler emulare le gesta del Dr. Heiter; ci riesce, seppur non con gli esiti sperati. Lomax è un emarginato, di aspetto sgradevole, oppresso dalla madre e vittima di abusi da parte del padre ormai in carcere. La sua fissazione con Human centipede è sagace presa in giro del luogo comune secondo cui “chi guarda gli horror è un potenziale psicopatico ed emulatore”: Martin è esattamente tutto questo, e la sua pignoleria è tale da voler coinvolgere nel suo millepiedi (costituito da 12 persone) gli attori del primo film, fingendosi agente di Tarantino che li convoca per un audizione. Dei tre, soltanto Ashlynn Jennie è disponibile: l’attrice approda a Londra, con “l’onore” di trovarsi questa volta a capo del centipede umano. La parte finale scivola nel disgusto, errore che era stato evitato in precedenza, con eccessi scatologici di cui si poteva tranquillamente fare a meno: il potenziale disturbante resta comunque inalterato, altissimo, anche in questo superiore al predecessore. La BBFC, ossia la famigerata commissione censoria britannica, negò inizialmente il lasciapassare al film, che venne concesso (con un divieto ai minori di 18 anni), dopo che Six effettuò un totale di 32 tagli, per circa 2 minuti e mezzo di girato. Nel 2014 arriverà il capitolo conclusivo, The human centipede (Final sequence), nel quale si alzerà la posta al massimo: un millepiedi umano formato da ben 500 persone.

Tra i tanti titoli più o meno sotterranei che possono essere considerati degni di nota si ritrova anche una sorpresa, Stoic (2009), di Uwe Boll, famoso per non essere esattamente regista sopraffino, che in questo caso riesce a confezionare 90 minuti difficili da sopportare, ma davvero ben congegnati: una cella, quattro detenuti, uno di loro si impicca in seguito alle ripetute vessazioni degli altri, ma non tutto è come sembra. Stoic narra a ritroso, intervallando l’ambientazione claustrofobica con i racconti dei carcerati/aguzzini, in un meccanismo a volte ingenuo, ma spesso tagliente e da pugno nello stomaco; nel cast, un redivivo Edward Furlong, per un film che merita la visione e che con tutta probabilità non si riuscirà a vedere due volte. Non si punta solo al disgusto bensì all’emotività, può essere anche ricattatorio per lo spettatore ma possiede il merito di non farsi dimenticare facilmente.

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Due (anzi, tre) film assai diversi tra loro, entrambi di matrice europea (anche se Stoic è una co-produzione tra Canada e Germania), presi soltanto a titolo esemplificativo di un cinema dell’eccesso che può ancora funzionare poiché riesce a raccontare, oltre che a mostrare. Di tutt’altro stampo sono i film della serie August underground, diretti da Fred Vogel: August underground (2001), August underground’s mordum (2003) e August underground’s penance (2007). In realtà, un abbozzo di plot esiste: vengono narrate le gesta di un killer, Peter (interpretato dallo stesso Vogel) e del suo complice (che filma il tutto con la mdp), nulla viene risparmiato allo sguardo dello spettatore. In August underground Mordum, il più famoso è feroce dei tre, compare la figura femminile di Crusty (Cristie Whiles), la fidanzata sadomasochista di Peter, che tornerà in August underground’s penance: il terzo film si differenzia dai precedenti per la qualità d’immagine decisamente superiore, poiché è girato in alta definizione (i primi due presentano un visivo sporco, che aumenta ulteriormente l’atmosfera squallida), e per una delineazione dei personaggi un po’ meno sommaria, con una trama che va al di là dell’abbozzo. Gli August underground sono girati in modo amatoriale, a basso budget e prodotti dalla Toetag, di proprietà di Vogel e del socio Jerami Cruise, hanno il merito di ottimi effetti speciali e di una recitazione credibile; sono, in definitiva, sequenze di efferatezze in cui è difficile trovare un filo logico o anche un minimo appiglio che possa spingere a guardarle. Eppure il mercato di cui godono, seppur di nicchia, è più ampio di quanto si pensi, e la serie è diventata una sorta di culto per gli estimatori. Viene spontaneo porsi qualche domanda in merito, poiché vale lo stesso discorso già fatto per i Guinea pigs: di cinema qui ce n’è ben poco, sono unicamente carrellate di atti oltraggiosi, quasi una gara a quanto di peggio si riesce a mostrare. Gli stessi attori degli August underground hanno dichiarato che realizzare determinate scene non è stato facile, e che per loro è stata una sorta di sdoppiamento, come spegnere un interruttore per dimenticarsi di chi erano in realtà ed entrare nella parte degli psicopatici. Molti ne parlano come della nuova frontiera dell’horror estremo ma se così fosse, è una frontiera decadente: si viene bombardati in maniera passiva, aggrediti dalle immagini come se esse stesse perpetrassero violenza allo spettatore. Può diventare una prova di resistenza, o forse si può correre realmente il rischio di desensibilizzazione.

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Interessante ed esplicativo su queste tematiche è il documentario S&man (Sandman, 2006), di J.T. Petty, che esplora il rapporto tra cinema e voyeurismo focalizzandosi sulla scena underground estrema. Vengono intervistati tre registi:il già citato Fred Vogel, il bizzarro Bill Zebub ed Eric Rost, autore della “serie snuff” che dà il titolo al documentario, nella quale egli pedina giovani donne per poi torturarle e ucciderle sotto l’occhio della videocamera. In realtà Rost è un personaggio fittizio, efficacemente interpretato dall’attore Eric Marcisak, e fornisce l’occasione per un plot che trasforma il documentario in un docu-fiction. Di particolare interesse è il contributo di Carol J. Clover, autrice del già citato Men, women, and chainsaws: gender in the modern horror film (Princeton University Press, 1993) la quale, tra le altre cose, sottolinea come nel voyeurismo avvenga una diminuzione dell’empatia verso chi è osservato, che finisce per essere percepito come un oggetto da parte di chi guarda. Il film di Petty pone un quesito fondamentale: a che punto lo spettatore diventa “complice” delle azioni che vede compiere sullo schermo? Domanda complessa, a cui l’opera non riesce forse a fornire una definitiva risposta, ma offre tuttavia dei punti di vista non trascurabili. Poco conosciuta, soprattutto qui in Italia, la figura di Bill Zebub: appassionato di death metal e filmmaker indipendente, gira pellicole a basso costo, spesso a contenuto blasfemo, e ha un suo seguito di fedelissimi; interessante anche l’intervista alla scream queen Debbie D, protagonista di custom movies, ossia video girati su richiesta per mettere in scena fantasie personali. I custom movies sono fenomeno (prettamente statunitense) scarsamente noto, i cui contenuti vanno dal grottesco (feticismi tanto improbabili quanto comici) fino all’inquietante (desideri di torture verso ex fidanzate): Debbie D sdrammatizza, definendoli catartici, ma viene in ogni caso da chiedersi se chi commissiona questi video abbia ben chiaro il confine tra realtà e finzione.

Dagli eccessi degli August underground fino ai vomit gore di Lucifer Valentine, questi sembrano essere i nuovi territori del cinema estremo contemporaneo: spingersi oltre, al punto da perdere di vista il concetto stesso di cinema.

Chiara Pani

Parte 3: Guinea pig e il cinema estremo giapponese.

 

Nella prossima puntata: A serbian film!

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