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Le derive dell’estremo: passato e presente dei “disturbing movies”. Introduzione

Creato il 21 novembre 2013 da Fascinationcinema

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La definizione di estremo nelle arti visive, in special modo nel cinema, all’interno di una società in perenne cambiamento, è quanto mai relativa e spesso di non facile applicazione. Sono numerosi, e contraddittori, i flussi di evoluzione (o involuzione) riguardanti la moralee il livello di tolleranza verso contenuti violenti o sessualmente espliciti, tenendo sempre conto che l’arte è il riflesso di un contesto sociale in un dato momento storico. Al giorno d’oggi, in particolar modo in Italia, si sta tristemente assistendo a un ritorno di atteggiamenti bacchettoni e censori: a partire dalla libertà di stampa, ambito in cui il nostro Paese si colloca ai livelli più bassi nel panorama europeo, fino a un rigurgito di bigottismo religioso, un’ipocrita morale cattolica che fa da paravento a un indiscriminato desiderio di condanna verso vizi e comportamenti altrui. Fattori che hanno radici diversificate, dalla frustrazione alla ricerca affannosa di una qualche “spiritualità” che redima dal materialismo imperante; in realtà, è l’attitudine di chi scaglia la pietra tenendo la schiena ben premuta sulle ante del proprio armadio colmo di scheletri. Le norme sempre più severe riguardanti la tutela dei minori nell’ambito degli audiovisivi ha giocato un grosso ruolo, e ciò ovviamente non è condannabile: negli anni ’70 cinema e tv presentavano ben pochi filtri, mentre oggi si pone più attenzione a ciò che le giovani generazioni dovrebbero (o non dovrebbero) guardare. Il punto centrale non è solo la scarsa utilità (i minorenni fruiscono di horror e pornografia liberamente tramite il web) ma si abusa di uno strumento che nasce con intenti costruttivi, trasformandolo in una crociata moralistica contro un “malcostume” che il più delle volte non sussiste. La legge italiana sulla censura è rimasta sostanzialmente invariata dal 1962, eccezion fatta per alcune modifiche apportate nel Luglio 2007 in tema di “revisione cinematografica”, cancellando l’atto censorio preventivo ma introducendo nuove limitazioni. [1]

Negli Stati Uniti, si passò dal famigerato Codice Hays, entrato in vigore nel 1934 e secondo il quale “nulla che possa abbassare gli standard morali dello spettatore debba essere mostrato”, al MPAA rating system (1967) tuttora esistente e, di fatto, uno dei sistemi censori meno restrittivi in assoluto, a parte alcuni casi isolati. La maggior libertà espressiva del cinema statunitense è anche dovuta all’esistenza delle tv via cavo, libere da qualsiasi divieto, facendo così in modo che il prodotto cinematografico non venga pensato a priori per il passaggio televisivo, dunque già “censurato” in partenza. Questa è la grande differenza rispetto a ciò che avviene in Italia, dove invece il legame tra industria filmica e piccolo schermo è strettissimo, e le pellicole vengono concepite in vista dei futuri passaggi TV, con tutte le restrizioni del caso.

L’appellativo di “cinema estremo” verrà dunque utilizzato per indicare quelle pellicole che, in epoche diverse, hanno suscitato raccapriccio, disagio, ripugnanza, sia dal punto di vista tematico che visivo (per dirla con Wikipedia: Extreme cinema is a type of film containing violence, gore, and sex of an extreme nature”); ma l’estremo è anche una sorta di non-genere, poiché agli altri si mescola come un visitatore solo in apparenza non gradito, in realtà invitato con tutti gli onori al fine di ottenere risonanza mediatica e botteghini rimpinguati. Esemplare è il caso dell’irritante Irréversible (2002) di Gaspar Noé, falso extreme plastificato, noto per la sequenza di dieci minuti di stupro anale ai danni di una Monica Bellucci che riesce a risultare quasi del tutto inespressiva anche in quel frangente, film fragile e pretenzioso, che ha riempito i multiplex di un pubblico curioso di vedere la scena dello scandalo, con tutta probabilità gli stessi spettatori che definiscono “spazzatura” capolavori del vero cinema “al limite”, come L’ultima casa a sinistra (1972) o Henry pioggia di sangue (1986). Opere che trovano nell’orrore interiore, più che nella violenza esplicita, il loro punto di forza, con il coraggio di narrare una storia e portarla fino in fondo, entrambi specchio di due epoche diverse nello stesso Paese, sanguinante per motivi diversi.

L’eccesso su grande schermo risale agli albori della cinematografia: dai brevi film di Thomas Edison con ricostruzioni di esecuzioni capitali fino alle prime pellicole pornografiche, dei primi del ‘900, che venivano mostrate nei postriboli a clienti in cerca di emozioni sempre più forti; alcune di esse, infatti, non risparmiano nulla, dal sadomaso al fist-fucking, passando per titoli come il tedesco Messe Noire (1928), pregevole satanic-porn che mette in scena una messa nera con dovizia di dettagli. Haxan (1922), di Benjamin Christensen, capolavoro del cinema muto e con effetti speciali strabilianti per l’epoca, vera e propria denuncia contro le aberrazioni dell’Inquisizione, carrellata di situazioni considerate blasfeme dalla morale comune e sabba stregoneschi a forte contenuto sessuale, è da molti ritenuto il primo esempio di exploitation movie: la pellicola infatti riempì le sale, poiché offriva al pubblico esattamente ciò che voleva e che solitamente veniva tenuto nascosto e censurato, ossia sesso e violenza.

L’estremo è concetto variabile anche da un punto di vista del singolo individuo e della sensibilità personale, poiché vi sono diversi livelli di sopportazione verso immagini e situazioni violente, dovuti a una varietà di condizioni, tra cui le differenti esperienze, i contesti culturali e sociali e l’assuefazione; quest’ultimo è punto di fondamentale importanza, nonché lungamente dibattuto nell’ambito della psicologia sociale, al fine di stabilire se l’abitudine all’assistere a determinati tipi di scene può comportare una desensibilizzazione, dunque una diminuzione dell’empatia. Si ricordano, a tal proposito (nel campo della psicologia infantile), gli studi di Drabman e Thomas (1974) e quelli di Funk (2003), i primi incentrati sulla tolleranza alle immagini violente, i secondi sulla questione empatica. Nell’esperimento di Drabman e Thomas, furono sottoposti a studio bambini di otto anni di età: ad alcuni di loro fu mostrato un video violento, ad altri uno non violento. Entrambi i gruppi assistettero poi a una zuffa (ovviamente simulata) tra altri due coetanei. Coloro che avevano guardato il video dai contenuti violenti non dissero agli adulti del litigio: questo, secondo i ricercatori, a causa del fatto che erano stati “desensibilizzati”, dunque si erano già abituati alla violenza e non la consideravano innaturale o dannosa. Nello studio di Funk, legato ai video games, a un largo gruppo di bambini di età compresa tra i 5 e i 12 anni fu sottoposto, in una prima fase, un questionario che verteva su molteplici argomenti: la loro esperienza di video gaming e le preferenze a riguardo, inoltre l’empatia e l’atteggiamento verso la violenza. Gruppi differenziati giocarono a un game che poteva essere violento oppure non violento, dopodiché fornirono delle risposte su situazioni quotidiane, scelte dai ricercatori in base a criteri di empatia e aggressività: il giudizio di partenza si basava sulle risposte fornite durante il primo stadio dell’esperimento, dunque sulle loro opinioni a proposito di empatia e violenza. I bambini che avevano giocato più a lungo a video games violenti diedero risposte che abbassarono il loro livello iniziale di empatia, mentre negli altri rimase invariato.Sono dissertazioni lunghe e complesse, e come tutti gli esperimenti compiuti su campioni di individui possono fornire risultati che non vanno generalizzati; in questa sede l’argomento (che può essere etico nella sua accezione positiva, ma moralistico nella sua degenerazione) ci interessa in modo marginale, poiché, in fin dei conti, le reazioni restano strettamente legate alla natura del singolo, senza dimenticare il contraltare, ossia l’effetto catartico.

Ciò che maggiormente ci interessa è analizzare il declino, in alcuni casi solo apparente, del genere extreme, dai picchi degli anni ‘70/80 fino alle cadute rovinose dei remake odierni o di alcune produzioni senza capo né coda. Non vi è pretesa di esaustività, in una tipologia filmica affollatissima di titoli e verrà preso in esame un numero assai limitato di pellicole ritenute esemplificative. L’accento verrà posto sui differenti contesti sociali (e politici), sulle reazioni del pubblico e sull’impatto della censura nei diversi periodi; in sintesi, non sempre il trascorrere del tempo è sinonimo di evoluzione, poiché ai giorni nostri stiamo assistendo da un lato a un rigurgito moralista (film che nei ’70 spopolavano in sala oggi sarebbero destinati esclusivamente al mercato home-video), dall’altro si ha un pubblico che, paradossalmente, tende a prendere più sul serio ciò che vede scorrere sullo schermo. Se trenta o quarant’anni fa lo spettatore riusciva a tracciare una linea di demarcazione tra l’orrore filmato e quello reale, distaccandosi dal primo poiché il secondo era incredibilmente vicino e tangibile (pensiamo alla Guerra in Vietnam o al terrorismo in Italia), ora chi guarda rischia di confondersi maggiormente, poiché avverte gli orrori mondani come distanti, e necessita di una maggior finzione quando si reca al cinema.

Come già si diceva, e per quel che concerne l’Italia, la televisione ha giocato un ruolo fondamentale nell’insieme di queste concause di mutamento. Andando oltre i nostri confini, determinante è stata anche la funzione della censura, divenuta abuso in quello che è conosciuto come il caso dei video nasties: una sorta di caccia alle streghe, che ha avuto luogo nel Regno Unito durante gli anni ’80, e tramite la quale furono sforbiciate o bandite un’infinità di pellicole, spesso in maniera arbitraria. L’Inghilterra rimane, a tutt’oggi, uno dei Paesi più rigidi in materia, e alcuni titoli finiti sotto la forca trent’anni fa sono riusciti a rivedere la luce solo di recente.

La concomitanza di tutti questi fattori di natura sociale, legati alla morale comune e anche a interessi economici, ha dato luogo alla nascita di un mercato sotterraneo, peraltro già esistente in passato, ma mai come oggi estremo nel senso più pieno e completo della parola: film del tutto privi di canovaccio narrativo, ridotti a sequenze di torture e violenze decontestualizzate, volte a soddisfare un voyeurismo che può degenerare nel desiderio di infrangere l’ultimo tabù: vedere la morte, quella vera. La leggenda urbana degli snuff movies, l’aura di sinistro culto che si è creata attorno ad essi, a suon di falsi allarmi e ricerche incessanti, rappresenta l’ultima frontiera del voyeurismo cinematografico, l’assistere a ciò che è proibito vedere e che, soprattutto, non dovrebbe venire filmato. E’ la trasgressione a un divieto che solletica l’inconscio, una fame di controllo visivo sulla fine violenta di qualcuno, o forse solo un volere sempre di più, non accontentandosi del finto in quanto ormai noioso ma pretendendo il reale, in un’ escalation potenzialmente pericolosa. Non sta a noi dare giudizi, né tanto meno fare analisi psicologiche dotte e approfondite: ci si limiterà ad analizzare i fenomeni, traendo di volta in volte le dovute conclusioni.


[1] Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Censura_cinematografica#Storia_della_censura_cinematografica_in_Italia

   Chiara Pani Con la prossima puntata si inizia con snuff e cannibalismo…

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