In queste settimane si legge e si sente con frequenza la parola «asilo:» ricorre nella vicenda del giovane americano Edward Snowden e ancor più nella recente, poco onorevole storia italiana della cittadina kazaka Alma Šalabaeva. L’espressione «asilo» echeggia dal Sud America alla Russia, dal Kazakstan a Roma, subendo molte deformazioni.
La confusione è aggravata dal fatto che le persone delle quali si parla non sembrano avere dei profili perfettamente trasparenti: il giovane Snowden è ricercato (anzi, rincorso) dalle autorità del suo Paese per aver rivelato informazioni coperte da segreto di Stato; la signora Šalabaeva presenta un quadro personale alquanto complesso, non ancora del tutto chiarito. Il suo nome, poi, è legato a un noto dissidente kazako rifugiato in Europa, ma anche in Europa condannato per reati patrimoniali.
Il concetto di «asilo» finisce così in un tritacarne di parole, sebbene conoscere i principi di questo importante istituto del diritto internazionale sia un passo essenziale per orientarsi nei fatti di questi giorni.
Bisogna innanzitutto distinguere l’asilo dalla migrazione per ragioni economiche, ossia lo spostamento di chi chiede di entrare in un altro Paese per trovare migliori condizioni di vita e lavoro. L’asilo è la protezione concessa da uno Stato a cittadini di un altro Stato che nel loro Paese abbiano fondato timore di essere perseguitati per un elenco preciso di ragioni, stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati. Tali ragioni sono: «La [...] razza, la religione, la cittadinanza, l’appartenenza a un determinato gruppo sociale o le [...] opinioni politiche» (Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, art. 1).
A far fede per la concessione dello status di rifugiato (ossia, l’asilo politico, in linguaggio comune) è pertanto la possibilità che la persona che lo richiede venga perseguitata nel suo Paese d’origine per una delle ragioni suddette. La valutazione della sua eventuale situazione giudiziaria sta su un piano diverso. Ma che significa «perseguitato?»
Perseguitato è chi viene fatto segno di pene e limitazioni della libertà personale senza basi legali (nulla poena sine lege) o se tali basi legali sono arbitrarie o contrarie ai principi di umanità riconosciuti nelle dichiarazioni internazionali, o addirittura rischia lesioni all’integrità fisica o della stessa vita. Se anche la persona fosse condannata nel suo Paese per ragioni valide ma in quel Paese le condizioni di carcerazione o esecuzione della pena fossero contrarie ai principi di umanità, non ne è consentita la consegna, questa volta ai sensi delle norme sull’estradizione.
Pare piuttosto difficile riconoscere nel giovane Edward Snowden i presupposti per la concessione dello status di rifugiato a causa di una persecuzione dovuta alle sue idee politiche. Negli Stati uniti, Snowden non è perseguitato ma ricercato per aver commesso violazioni gravi del segreto di Stato. E’ difficile affermare che, se venisse condannato per questo motivo, la condanna sarebbe priva di basi legali o che le leggi degli Stati uniti siano contrarie a principi umanitari internazionalmente riconosciuti. Vero è che alcuni Stati della federazione statunitense prevedono la pena di morte, ma andrebbe prima chiarito se i reati contestati a Snowden siano puniti con la morte e se tale pena verrebbe effettivamente eseguita. Se gli Stati uniti abbiano poi violato norme di riservatezza dei dati o altre convenzioni internazionali, con le loro attività di spionaggio, è questione da affrontare su tutt’altro piano.
L’uso della parola «asilo» in riferimento all’intenzione di molti Paesi sudamericani di accogliere il fuggiasco Edward Snowden sul loro territorio è pertanto fuori registro. Non per nulla il Presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, e le altre autorità di quel Paese hanno parlato di «asilo umanitario,» concetto giuridicamente ben più volatile dello status di rifugiato (normalmente espresso con «asilo politico»). E’ facile riconoscere, dietro a questi escamotage lessicali, una controversia che non ha nulla a che vedere con la questione dello spionaggio delle comunicazioni da parte degli USA, svelato da Snowden. Alcuni Paesi latinoamericani, che agiscono su uno scenario ideologico e geopolitico opposto agli Stati uniti, colgono la vicenda per affermare la loro posizione, rafforzati anche dalle goffe e imbarazzate mosse di Washington (si pensi all’atterraggio imposto a Vienna al Presidente della Bolivia).
Ben diverso è il caso dell’Italia e della signora Šalabaeva. Innanzitutto la sua posizione deve essere distinta da quella del marito, anche se nelle cronache le due figure vengono spesso accomunate. Ciascuno risponde delle proprie condotte e l’eventuale esistenza di concorsi deve essere accertata, anche qui, su altro piano. Indipendentemente da ciò, la ragione per la quale la signora Šalabaeva ha diritto allo status di rifugiato è la situazione del suo Paese d’origine, il Kazakstan, governato da un regime dittatoriale dove l’espressione di opinioni politiche difformi dal potere è oggetto di persecuzione, mentre l’amministrazione della giustizia e l’esecuzione delle pene non danno le garanzie di umanità riconosciute dalla comunità internazionale.
Anche il tema dell’eventuale mancanza di permesso di soggiorno in Italia della signora Šalabaeva, di indiscusso richiamo mediatico, non può essere semplificato. Va analizzato alla luce dei requisiti previsti dall’art. 31.1 della Convenzione di Ginevra, che indica i comportamenti degli Stati che accolgono rifugiati entrati illegalmente sul loro territorio.
Dietro all’uso non sempre consapevole di una parola si celano situazioni profondamente diverse che la confusione lessicale non aiuta a discernere. Per la verità, queste vicende si collocano su uno scenario globale piuttosto avvincente e articolato, al quale merita dedicare un prossimo articolo.
| ©2013 >Luca Lovisolo
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