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“Le due sponde”, di Guglielmo Spirito

Creato il 09 novembre 2010 da Fabry2010

 

Se non fossi egiziano, egiziano vorrei essere.
Mustafa Kamil

Dall’Egitto ho chiamato mio figlio

(Mt 2, 15)

Alessandria/Catanzaro,
agosto 2009

Sorvoliamo il Mediterraneo, in discesa verso la costa egiziana. Il mare scivola all’indietro e si perde fuori del finestrino. Un chiarore abbagliante, ovunque, appena attutito (o forse ingrandito, deformato?) dalla coltre di un giallastro sporco – pensavo fosse sabbia ed è invece smog-, che incombe come un lenzuolo lurido sul Cairo, avvolge l’arrivo nella terra dei copti.

Attorno al convento di Clot Bey, casa madre delle Suore Francescane Missionarie, dette di Egitto (dove le suore sono arrivate 150 anni fa, dietro la beata Madre Caterina Troiani), i vicoli si annodano e si snodano, brulicanti di vita (semi)umana: maleodoranti di frutta marcia, olio bruciato, rigovernatura e orina; zaffate assortite e non identificabili, nell’aria surriscaldata, afosa, dove persino le ombre, sudice, puzzano. Un velo bruno, reso ancora più cupo dalle ombre dei muri che cingono da ogni lato l’intreccio di stradine e strade trafficate: una bottega, un caffè, un forno, un bazar, come se fossi nel Vicolo del Mortaio di Nagib Mahfuz. Di qua è passato il mio grande omonimo cappuccino, Guglielmo Massaia, e anche Ludovico da Casoria.
Venditori, passanti, bambini, massaie, sfaccendati e avventori che fumano il narghilè, in mezzo al chiasso dei clacson, al ronzio delle mosche e al vociare del muezzin che chiama alla preghiera.
Che mondo buio, professore, direbbe il Nero in Sunset Limited di Cormac McCarthy. Sì, risponderebbe il Bianco…

La mia camera ha un’unica finestra che tengo ermeticamente chiusa, anche con le persiane serrate: un fetore sale dal vicolo dietro al convento, che si arrampica e striscia, e cerca di entrare nella stanza. Le pale del ventilatore ricacciano indietro i rumori della strada. Ed i sorci. Loro, invece, gli scarafaggi, entrano lo stesso. Enormi scarafaggi lucidi, setolosi e baffuti che mi hanno svegliato in mezzo al sudore della notte, morsicandomi l’avambraccio. Rabbrividisco ancora. La caccia si è protratta fino a che lo sterminio degli intrusi identificati fu compiuto. Come essere certo che da sotto la porta o dalle fessure dei mobili o dagli stipiti della finestra non sbuchino, non spuntino altri strani esseri con mandibole e zampette? (infatti, qualche giorno dopo hanno trovato un serpente nel cortile: e siamo in pieno Cairo).
Pure condividendo i timori notturni di Ryszard Kapuściński, raccontati in Ebano, sono comunque sfinito: madido di sudore, schiacciato dell’afa stantia che domina nella stanza chiusa, noncurante del ventilatore, mi addormento.

Felice comunque di essere, di nuovo, in Egitto…

Con le parole di Kavafis, il grande poeta alessandrino

Torna spesso e prendimi,
amata sensazione torna e prendimi -
quando si risveglia la memoria del corpo
e l’antico desiderio penetra nel sangue

Tanto a lungo ho guardato la bellezza,
che la mia vista ne è piena

Perché l’Egitto è bello. Bello per la sua natura e per la sua storia impareggiabile, e bello specialmente per le benedizioni vissute da tanti: dai tempi di Giuseppe e Mosé, entrambi egiziani, fino alla Fuga della Sacra Famiglia che rese la terra del Nilo anch’essa terra santa.
Qui a Clot Bey, un quadro miracoloso del Transito di san Giuseppe riduce la distanza tra cielo e terra: tutto passa, ma tutto ha un senso, e Dio è Fedele oltre misura. Il mio cuore riposa in questa scena (che ho visto, coinvolgente, in sogno, tempo fa); il mio cuore dimora davanti a questo Transito, in questa cappella francescana, nel cuore del Cairo.

Tanto che credo di capire il senso delle parole di Mustafa Kamil riportate nell’esergo, e di farle mie, senza badare al sarcasmo con il quale vengono trattate da un personaggio di ‘Ala Al-Aswani: sebbene io non sia egiziano, l’Egitto è nato in me nella mia remota infanzia; al punto che mio padre al telefono, quando lo chiamai a Buenos Aires da Alessandria, mi disse: Ah, sei tornato a casa dunque!

Alessandria o Iskenderia, come la si chiama in arabo. Grazie al cielo, si trova di fronte al mare, fuori dalla cappa sporca che soffoca il Cairo. Sulla sponda del Mediterraneo, al bordo nord-occidentale del fertile e rigoglioso delta del Nilo, affacciandosi a ovest sul deserto del Sahara.
Città fondata dal grande Macedone, città dei Tolomei e della loro Biblioteca; città che vide la morte di Marco Antonio e di Cleopatra e il trionfo di Ottaviano. La stessa città che vide predicare san Marco l’Evangelista e insegnare Origene e Didimo; che vide lottare il grande Atanasio e il grande Antonio. E poi vide il passaggio di Basilio e di Gregorio Nazianzeno; la sosta di Evagrio Pontico; le vite di Sarra e Sincletica, di Maria Egiziaca; che vide Plotino e Filone, e la morte di Ipazia e di Cirillo, e del Serapeum; che vide infine l’arrivo dei conquistatori arabi, che non la lasciarono mai più…

Città sgualcita, arrugginita, decaduta dai vecchi fasti, grigia ombra di se stessa, specchio opaco di ricordi – come nelle struggenti poesie di Kavafis, la splendida Alessandria d’inizio del XX secolo; colma di fantasmi svaniti, di pietre sommerse e di memorie greche, armene, francesi, inglesi e italiane…

Come pronto da tempo e coraggioso,
salutala, Alessandria che scompare

Mi sono detto qualche volta: ‘andrò in altra terra, andrò in altro mare…’
Ogni mio tentativo è destinato a fallire: ovunque mi giri, ovunque guardi, il riverbero dell’Egitto mi accompagna.

Fermarmi qui. Per vedere anch’io un po’ la natura.
Luminosi azzurri e gialle sponde
Del mare al mattino e del cielo limpido: tutto
È bello e in piena luce.

Fermarmi qui. E illudermi di vederli
(e davvero li vidi un attimo appena mi fermai);
e non vedere anche le mie fantasie,
i miei ricordi, le visioni del piacere.

Penso all’altra sponda dello stesso mare; il ricordo dà forma e colore a parole o frasi, in comunione con chi vive adesso in un’altra città una volta greca come questa, a Catanzaro, in Calabria. Penso a Emanuele.
Guardo verso nord-ovest, verso la linea dell’orizzonte salmastro. Non c’è bisogno dell’alta luce dello scomparso Faro, meraviglia del mondo antico: i pensieri attraversano le onde come raggi caldi, dorati e luminosi. Lo stesso sciabordio azzurro lambisce e rinfresca la riva egiziana e quella calabrese…

Ricordo Iside, Stella Maris, che dall’alto del Faro guidava la navigazione; penso alla Isis Lactans, precorritrice iconografica della Theotokos. Ma è il ricordo di Gesù, Maria e Giuseppe, dei Tre qua, che mi seduce e mi trattiene.
Ripercorro i luoghi dove secondo la vivace tradizione copta, sostò la Sacra Famiglia: a Matariyah, nella antica On (Eliopoli) dove si venera il così detto ‘Albero della Vergine’ (alla cui ombra riposarono); alla Grotta o Cripta, adesso inglobata nella Chiesa di San Sergio nel Vecchio Cairo (dove ebbe luogo il soggiorno più lungo), e infine a Ma’adi, sul Nilo, dove Giuseppe, Maria e Gesù si sarebbero imbarcai verso l’Alto Egitto.
Frescura e brezza; la lenta maestosità del fiume che scorre, gonfio e pacato nella sua sacra serenità; palme, sicomori, acacie lussureggianti ombreggiano la riva. Ma’adi è una zona residenziale, silenziosa e verde, un’oasi di sollievo, l’esatto opposto del centro trafficato del Cairo. Sorrido evocando un paesaggio nella Costanera Sud, nel Rio de la Plata. Struggente e dolce.
Al di là del Nilo, dietro la coltre fertile dei palmizi e le coltivazioni, verso sud, si estende Gizah con le sue piramidi, e Menfi delle Bianche Mura, bilancia delle Due Terre. L’acqua – corpo di Haapi – scorre, scura e invitante, portando in ogni goccia, in ogni onda la nostalgia di Tebe delle Cento Porte, del tempio di Karnak e di Medinet Habu, sacrario del mio cuore nell’Alto Egitto…

Contro corrente, la barca portò una volta i Tre profughi fino a Tell-El-Amarna e Al-Muharraq; là Giuseppe ricevette l’ordine di tornare.
È un riandare i Misteri dell’Infanzia del Signore, in compagnia di Maria e di Giuseppe; un ricordare e rivivere con loro, evocando l’Annunciazione a Maria (e quella a Giuseppe), la gestazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la strage degli Innocenti e la Fuga; quindi in situ, l’evocare con commozione, timore e tremore il loro soggiorno in Egitto, e il ritorno a Nazareth… Tempo e spazio sembrano assottigliarsi, aboliti, resi incapaci di trattenere lo slancio della memoria e la potenza della presenza salvifica, attuale, del Signore Vivente. Sono a casa: sono con Gesù. Maria e Giuseppe.

Settimana di Esercizi Spirituali ad Alessandria, con le suore francescane, tutte copte (e belle). Ci lasciamo guidare dai primi due capitoli del Vangelo secondo Matteo e da qualche brano di Paolo, per crescere figli nel Figlio, custoditi dal Redemptoris Custos.

Gli antichi nomi cedono il posto ai nuovi, ma la bellezza dei volti delle sorelle – come tratti dagli affreschi dell’antica Luxor – sono immutati, giovani: Anaam, Nahed, Samia, Marsa, Mariam, Damiana, Nagat, Salwa, Fadia, Elen, Caterina, Marcelle, Magda, Emerenziana, Afaf…e, in modo speciale, suor Cherubina (che non fa il ritiro, è armena, e ha compiuto 90 anni).

Una giornata però la si fa fuori, lontano, nel deserto. A Wadi el-Natrun (l’antica Scete), al monastero di San Macario (del IV secolo), a metà strada tra Alessandria e il Cairo, sul lato occidentale della via del deserto. Senza interruzioni, il monastero è stato sempre abitato, e adesso vive una rinnovata fioritura, grazie all’operato dal compianto padre copto Matta El-Meskin.
Il sole sale sempre più in alto. L’immota, pietrificata distesa del deserto ne assorbe i raggi, surriscaldandosi e cominciando ad ardere. Le nostre ombre incominciano a rattrappirsi, a sbiadire e lentamente svanire. Perfino quello che rimane dell’ombra è bollente, perfino il vento è infuocato. Sabbia e polvere disseccata a perdita d’occhio, ciuffi d’erba bruciata e rinsecchita. Cumuli informi di pietrisco.
Il monastero è attorniato da questo fenomeno abbacinante; non sembra che ci siano valide protezioni né fuga all’arsura, tranne gli archi e gli alberi polverosi dentro il recinto ombroso dei muri, soprattutto, sotto le volte delle chiese del monastero: buie, quiete, vuote, (quasi) è possibile respirare e raccogliersi in preghiera…Le reliquie di san Macario il Grande e di san Macario l’Alessandrino e poi di san Giovanni il Nano e dei Quarantanove Martiri di Scete, mi toccano il cuore con austera dolcezza: i Padri del deserto sono qui!!! Un tremito accompagna lo snodarsi dei gesti e delle parole, teneri, di preghiera… Un riconoscersi e un toccarsi con le parole. Sono a casa.

Anche dei tempi biblici ci sono delle reliquie: sembra abbiano trasportato alcuni dei resti del Battista e del profeta Eliseo, il discepolo di Elia. Non commento, ma quello che mi risulta sicuro è che delle Dieci Piaghe mosaiche al tempo dell’Esodo, gli sciami di mosche sono rimasti tutti qua: non ho mai visto (né subito) una quantità così abnorme e una sfacciataggine così oscena come quelle di queste mosche addosso a me in ogni millimetro di pelle sudata!

Tanto a lungo ho guardato la bellezza,
che la mia vista ne è piena.

Penso all’amico che immagino in piede sull’altra sponda del mare; penso e vedo la quotidianità della vita sulla riva nord del Mediterraneo. Immagini in parte reali, in parte roteanti nel pensiero. Resto a lungo a guardare. Passano le scene dei Misteri della vita di Cristo, dell’infanzia di Cristo, e del lungo soggiorno in Egitto.
Vedo gli stessi Misteri ricordati e celebrati, al modo francescano, in un convento calabrese. Sull’altra sponda, al di là del mare, gli stessi Misteri, le stesse invocazioni, lo stesso susseguirsi cadenzato di lodi e di suppliche accorate.
Così Gesù, Maria e Giuseppe uniscono, misteriosamente, in un laccio indissolubile di comunione, le due sponde.
Più ancora di quanto la mia memoria mi unisca all’amico chi sta in piede sull’altra sponda.
O forse, appunto per questo lo ricordo e lo vedo: perché in effetti, misteriosamente, siamo uniti – due corpi con un’anima sola, diceva Gregorio di sé e Basilio –, in un Mistero di salvezza che ci accomuna, ci ingloba, ci trascina e ci custodisce. Come nell’ampio segno di benedizione sacerdotale che il monaco traccia su di noi con la sua croce copta intagliata in legno, foriera di grazia inattesa e sorprendente, nel Nome unico della Trinità Vivificante: grazia affidabile e inafferrabile…

Nel volo del ritorno, dopo esserci lasciati alle spalle un lembo di Creta, entrando sulla costa italiana sorvoliamo proprio Catanzaro, e sorrido.
Le due sponde sono unite da un unico mare, come i nostri cuori nell’Oceano dell’amore dei Tre…



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