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Le fobie di un incantatore di serpenti

Da Paperoga

Le fobie di un incantatore di serpenti

E dire che la mia vita era iniziata in modo del tutto diverso. C’erano i presupposti per l’esistenza avventurosa di un uomo dalle spalle larghe. Potevo essere un grande esploratore, un Vasco da Gama, o meno retoricamente un Giovanni Soldini, un Patrick De Gayardon magari non spiaccicato al suolo, o anche uno di quegli idioti che vanno a caccia nelle lagune australiane in cerca di coccodrilli per aprire fauci e fare pulizie dei molari.

Immaginate la scena: ho un anno e mezzo, gioco sul pavimento di casa davanti agli occhi di mia madre. Lei si allontana un attimo, dopo un minuto torna e vede che non sono solo: accanto a me c’è un serpente. Non un serpentello di gomma, un serpente bello in carne, scuro sinuoso e viscido. La storia racconta che io ero divertito dalla sua presenza, e per nulla turbato e molto curioso cercavo di avvicinarmi. Prima di svenire definitivamente, mia madre con le sue ultime forze riusciva a chiamare aiuto. Due operai entravano nel salone allontanandomi di peso e scacciando con un bastone lo scurzune di turno (biscia nera non velenosa ma di molto incazzosa abitante le campagne salentine).

Ovviamente questo racconto è stato nel tempo tramandato oralmente, il che lo ha parecchio distorto ed amplificato come spesso avviene, e che anche io provvedo a diffondere come un bullo di paese quando devo provarci con una ragazza (e immaginate con che successo). Ci sono più vulgate apocrife dell’aneddoto, come spesso accade, ben più gustose della versione “sinottica”.

Versione apocrifa “del giocoliere”

In questa versione mia madre torna in stanza e mi vede mica col serpente a rispettosa distanza: no, col serpente proprio tra le mani, mentre ci gioco, lo metto al collo, lo annodo, lo faccio passare sotto le ascelle, lo tengo per la testa e mi faccio solleticare dalla sua lingua biforcuta, come un giovane dio di una religione misteriosa del centroamerica, un uomo-serpente degno dei migliori racconti della giungla.

Versione della “moltiplicazione dei serpenti”

In questa vulgata apocrifa i serpenti non sono uno, ma due (in alcune sotto-versioni anche tre, ma  se ho bevuto diventano quattro). Anch’essi avviluppati al mio corpicino nudo ricoperto solo dal pannolino, si muovono contorti attorno a me che li padroneggio con perizia e piglio da domatore. Una posa mitologica a metà tra il laocoontico e la leggendaria Medusa.

Versione del “fachiro”

In questa versione mia madre entra nella stanza e mi trova con un turbante sulla testa con un flauto in mano, ed al suono dello strumento una cesta di vimini discopre pian piano un serpente iptnotizzato dal mio suono. E’ una versione che racconto solo ai gonzi, o ai bambini, e uno ogni tanto se la beve pure.

Versioni parallele a parte, questo incontro non pronosticava forse quanto io non fossi un predestinato all’avventura, all’incontro ravvicinato col pericolo? Non era forse un segno, quello, di una vita che si sarebbe presto emancipata dalle paure medio-borghesi, che si sarebbe fatta un baffo di ansie, tremori, paure reali o psicosomatiche? Insomma, non ero nato per essere un cazzutissimo incosciente?

No.

Qualche tempo dopo, giusto il tempo per diventare un infante totalmente cosciente e pensante, ho cominciato ad inanellare lievi fobie. Nessuna in sè meritevole di approfondimento da un terapista infantile, sia chiaro. Tutte mediamente controllabili ma, come diceva Totò, è la somma che fa il totale, ovvero era la quantità spropositata di fobie a dover fare insospettire circa la deriva accorta e impaurita che avrebbe preso la mia vita. (le cito rigorosamente nel loro lemma scientifico, così non sapete di che si tratta e mai andrete su google a vedere di cosa soffro).

Per limitarci solo a quelle che mi hanno impedito di volare in alto come Jonathan, posso dire che se volevo diventare un grande esploratore  del mondo, un avventuroso scopritore di terre e di mari, a tranciare questo sogno sono intervenute varie tare: sono diventato acrofobico, batofobico, dinofobico e persino  cremnofobico, in altre parole di fare l’alpinista o l’esploratore d’altura non c’erano proprio cazzi. Eppure durante le mie estati da scout, in cui ho valicato fior di vette e consumato centinaia di sentieri, avrei potuto e dovuto superarle. E invece no. Essendo anche brontofobico, keraunofobico, astrafobico e anche lilapsofobico, appena una nuvola di montagna minacciava brontolando correvo a ripararmi sotto gli alberi urlando (bravo il salame), il che impediva qualsiasi futura scalata del K2.

Vabè, si dirà, potevo comunque diventare un amante degli animali, uno studioso che si infila nei pertugi più insidiosi per spiare e schivare cinghiali o  fare rectoscopie ai diavoli della tasmania o anche sezionare le ossa ai brontosauri per quel che ne potevo sapere.

E invece nisba. Senza tediarvi troppo ho presto accumulato le seguenti e attanaglianti paure: dall’ofidiofobia o comunque in più in generale erpetofobia all’elasmofobia ogni volta che nuotavo e nuoto nelle acque profonde, dalle più banali aracnofobia e cinofobia (robe da dilettanti) alla più strana equinofobia (a me gli animali chiaramente psicopatici che schiumano dalla bocca e mantengono perennemente gli occhi fuori dalle orbite mi fanno tenere a distanza, altro che oppi-oppi-cavalluccio).

Ma in tutte queste fobie cos’è rimasta della mia antica tempra di coraggioso? I prossimi due post vi chiariranno le idee e vi faranno vedere cos’è rimasto di quel biondo e cicciottoso incantatore di serpenti.



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