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Le ginestre di Portella

Creato il 29 aprile 2010 da Casarrubea
Le ginestre di Portella

Portella della Ginestra (2008, foto Archivio Casarrubea)

Prepariamoci, come succede da sessantatre anni, al nuovo equivoco di una memoria tradita. Gli oratori hanno già scritto i loro interventi e la banda musicale, che da Piana  degli Albanesi sale al pianoro suonando gli inni dei lavoratori, ha messo a punto il suo repertorio. Sempre lo stesso.

Qui, ciò che rimane dei morti, guarda la folla plaudente, ormai ammansita dopo tanti decenni di silenzi e di omertà, di vittime che si accumulano su altri caduti, di piccole e grandi carriere imbastite sui nomi gridati al vento,  dal Sasso di Barbato, trionfante sulla valle che scompare ai piedi del Kumeta,  sotto l’occhio maligno e invisibile della Pizzuta.

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I morti. Se potessero risorgere e parlare, agiterebbero nell’aria le loro fruste, alzerebbero in alto le loro braccia  sanguinanti e minacciose, urlerebbero inorriditi dallo scempio e dalla dissacrazione, dal facile commercio di quella tragedia, dal silenzio fatto calare come un macigno sulla verità che grida ancora vendetta.

A Portella della Ginestra i predicatori del nulla hanno compiuto il miracolo. La recita è scontata. I morti hanno ucciso altri morti, hanno fatto scempio del loro sangue e delle loro ossa. Li hanno poi nascosti lontani da occhi indiscreti, perchè nessuno sapesse, nessuno udisse il grido di vendetta, che veniva dalla loro polvere, dalla loro voluta inesistenza, dalla loro forza terribile. Morti e oratori, binomio inseparabile. I primi con la loro imponenza, il loro sacrificio, le loro ombre di divinità protettive; gli altri con i loro riti pagani, il loro falso vivere nel presente, la loro vuota oratoria pronta a svanire con il sole del 1 maggio. E con la loro negazione della verità. O meglio, con la presunzione della verità.

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Le ginestre di Portella

Portella della Ginestra (2009, Archivio Casarrubea)

Vado ogni anno a Portella della Ginestra e provo sempre la stessa sensazione. Il luogo è evocativo di suggestioni e ricordi;  ha in sè qualcosa di magico e di profondo. Tutto qui ha un suo linguaggio e una sua sacralità come se i massi, le colline, le montagne narrassero una storia  antica, lontana nei secoli e nello stesso tempo a noi molto vicina. Ci ricorda lo Stato che nasce, patrigno e maledetto, con i suoi riti sacrificali alle divinità pagane di un antico impero.

Portella della Ginestra è l’atto di nascita di questo Stato, la punta più virulenta di un percorso di morte che comincia con i morti e finisce con altri morti.

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Un fatto unico, continuo, strategia perversa di decapitazione di capilega e di semplici lavoratori, responsabili solo di essere o di apparire espressioni della nascente democrazia italiana. Dalla strage di Alia che il 21 settembre 1946 fece saltare in aria con bombe e mitra la sede della Federterra, all’uccisione di Nicolò Azoti, segretario della Camera del Lavoro di Baucina; dall’assassinio di Accursio Miraglia alla strage  del 7 marzo 1947 a Messina, quando i carabinieri spararono sulla folla e uccisero tre lavoratori inermi che volevano solo pane e lavoro; da Portella della Ginestra agli assalti contro le Camere del Lavoro della provincia di Palermo (22 giugno ’47) con altri morti e feriti.

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Le ginestre di Portella

Portella 1° maggio 1948 (Archivio Casarrubea)

Morti ignorati dai falsi predicatori dei podi, dei pulpiti dei comizianti, dal Sasso di Barbato. Ma se i morti potessero resuscitare e potessero parlare di quei mesi, sarebbero loro il tribunale inesorabile non solo contro i veri autori delle stragi, i pugnalatori della democrazia in festa, dei lavoratori che si battevano per i loro diritti; ma sarebbero anche loro i fustigatori di quanti hanno affossato la verità, scartato la forza della ragione, ostruito le vie di quanti si sono messi a salire i sentieri scoscesi che portano ai carnefici, agli armadi della vergogna. Ma i morti  non hanno potere. I morti di Alia,  Baucina, Sciacca, Messina, Portella, Partinico continuano ogni anno a morire una seconda volta. Con le speculazioni, i falsi poeti, i teatranti, le comparse, le sigle democratiche e antimafia, gli stendardi e i gonfaloni, gli improvvisati storici, quelli che ci raccontano il falso basandosi sulle opinioni e non sui documenti; quelli che fingono ritiri spirituali per partorire pura retorica. Nuovi attori che non sanno. Non vogliono sapere.

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I  giudici unificarono i processi per le stragi del ’47, ma li comizianti fingono di non saperlo.  Persino gli editori sindacali di corsod’Italia, a Roma, sembrano entrati in un sonno profondo. Così sappiamo come si possa gridare contro altri morti: ignorati, emarginati, scartati.  Astuta e barbara rimozione per un primato: il quieto vivere. O la ragion di Stato. Togliatti vietò al senatore Montalbano di dire la verità in Parlamento; temeva che si rompessero gli equilibri tra maggioranza e opposizione; Luciano Lama  non intervenne per commemorare  i morti di Messina, nel primo anniversario della strage. All’ultimo minuto si tirò indietro. Qualcuno presentò una denuncia contro l’ispettore capo di polizia che nel ’47 aveva la responsabilità dell’ordine pubblico in Sicilia, ma la denuncia si perse; il ministro dell’Interno Mario Scelba, a meno di ventiquattro ore di distanza dalla strage di Portella, disse che quello non era un delitto politico, e tutti i tribunali si orientarono verso un unico capro espiatorio.  Quella fu e rimase la verità tombale. Alla faccia degli straordinari ritrovamenti archivistici in America e in Europa, dopo il 2000.

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Le ginestre di Portella

La Corte di Assise di Viterbo a Portella della Ginestra

A Portella incontro sempre due anime. La prima, burocratica, sindacalese, senza ricordi e senza vita, sicura di verità date, retorica. Incontro la nomenclatura, l’apparato, come le autorità comuniste nelle sfilate del primo maggio, nei paesi del socialismo reale, prima del crollo del muro di Berlino. La seconda consapevole del dubbio, arrabbiata, giovane, che si interroga, muta e angosciata. A Portella trovo la mia ricchezza e le parole vuote. I silenzi  che parlano da soli e il delicato profumo delle ginestre che mi riempie di speranza. Ascolto il silenzio, respiro l’aria, guardo i sassi e le montagne, e poi, prima che qualcuno dal podio cominci ad abbaiare, me ne vado, triste e contento come ogni anno. Tutto quello che qui si dice, ormai, non appartiene più ai disoccupati, ai contadini, agli operai che hanno perso il posto di lavoro. Tutti abbandonati al loro destino da una sinistra inetta e suicida. Sensibile, però, ai nuovi equilibri parlamentari dettati da una destra rabbiosa di matrice neofascista. Ma anche alle sirene di Lombardo nell’isola.

A Portella una sola cosa è possibile fare. Ascoltare il vento leggero, sentire l’erba e le nuvole, udire con nuove orecchie l’urlo delle pietre che ancora gridano ciò che hanno visto con la complicità di tutti quelli che si sono avvicendati a recitare ogni anno la loro parte di vuota testimonianza.

Portella dovrebbe essere il sacrario di una folla muta in ascolto non delle voci dei vivi, ma di quelle dei morti. (GC)


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