Ho aspettato tutte le 279 pagine del romanzo d'esordio di Barbara Di Gregorio sperando di appassionarmi più o meno, in qualche modo, anche nel modo più approssimativo possibile, ma nulla da fare, non è accaduto. Nemmeno l'aspetto simbolico surreale mi ha scomposto, non mi sono sentita sollevata all'idea che a un bel momento si potesse volare o sorvolare o super volare né tanto meno dall'eventualità che potessero spuntare un giorno due ali anche sulla mia schiena. Ho riposto tutte le mie aspettative nel capitolo finale, L'ottovolante, certa che mi potesse spiegare perché la Rizzoli avesse investito tanto nel libro di questa giovane scrittrice. Mi sarei accontentata anche di un finale ad effetto, ho sperato perfino nell'incrocio di destini all'ultimo minuto, la mia parte superficiale e romantica ne sarebbe stata in qualche modo appagata. Ma niente, nessuno stupore fino all'ultima riga.
Non vorrei venire fraintesa e cioè la mia non è ironia, non lo è affatto, ma ho invece trovato molto bella la pagina dei ringraziamenti, mi ha emozionato, si tratta delle uniche parole scritte da Barbara Di Gregorio che ho sentito completamente verosimili. Ho sentito la sua voce che graffia ma con garbo, il nodo in gola da cui partono le sue storie, i piedi piantati a terra, una scarsa propensione alla magia e semmai una passione per i vuoti d'amore. Ho capito, leggendo la pagina dei ringraziamenti, che il prossimo suo libro sarà migliore se solo le capiterà di esporsi. Ho avuto conferma che l'inverosimile distrugge un libro a dispetto dello stile più ricercato e dell'armonia di scrittura più musicale. Chi le avrà mai consigliato di mettersi così da parte al punto da rendere necessario, dopo 150 pagine di realismo spinto, un colpo di scena magico?
Una frase mi ha colpita, si tratta di un dialogo, forte nei dialoghi la Di Gregorio, fin troppo:
“Perché volare e basta gli faceva paura?”
“Lo vedi che non sei scemo? Era nato solo per fare quello, ma gli riusciva così facile che gli sembrava sbagliato (...)”
Se fosse partita da qui, da questo nucleo emotivo, senza tanto insistere nel voler scrivere un romanzo poco italiano, avrebbe incontrato non poca empatia da parte dei lettori e avrebbe scritto un buon libro, ne sono certa.
Le giostre sono per gli scemi è la storia di due fratellastri nati e cresciuti in una famiglia maldestra da due padri diversi. Leonardo, il fratello più grande, è figlio di un giostraio e ha origini zingare, Chicco, il fratello minore, bulimico, ciccione e con un vuoto d'amore commovente, vive nell'abbandono, confortato dal solo affetto del fratello che si prende cura di lui in un perverso gioco di ambivalenza e incostanza d'amore. I genitori lavorano in un ristorante e non sono mai a casa così Leonardo accudisce il fratello diventando il suo unico punto di riferimento. Leonardo che vive nella nostalgia del padre, scomparso nel nulla quando lui era ancora piccolo, al compimento dei diciott'anni se ne va di casa. Chicco non lo rivede più per dieci anni e decide di cercarlo.
Un “come se” lungo tutto un romanzo grava sui protagonisti e sulla storia; la contrapposizione tra zingari e stanziali, idealisti e materialisti, ribelli e conservatori, distratti e abbandonati, viene riportata in modo svogliato, quasi il gesto stesso di occuparsene avesse inaspettatamente reso meno interessante all'autrice l'argomento, svuotando la storia della necessaria urgenza narrativa.
Il distacco dell'autrice si traduce in un io narrante a volte deluso a volte annoiato, mancano scintille e nodi alla gola e, allo stesso modo, mancano la distanza e la vera freddezza di chi si mette in gioco davvero.
Peccato perché Barbara Di Gregorio scrive bene, di grovigli dell'anima se ne intende e si capisce (sempre dalla pagina dei ringraziamenti, mi vogliate scusare) che di cose da dire ne ha fin troppe. Attendiamo fiduciosi che la prossima narrazione non le sfugga di mano e che la scrittrice riesca a scrollarsi di dosso il pudore dell'esordiente. Nel frattempo, a malincuore, diamo a questa prima prova l'etichetta di romanzo non riuscito.