di Davide Piacenza
ltimamente ha fatto davvero molto discutere un articolo apparso su Foreign Policy – il bimestrale americano di politica ed economia – a firma Michael Moynihan: “Leftist Planet” (Internazionale l’ha tradotto nel numero del 14 settembre col titolo “Il giro del mondo con la guida a sinistra”). Nel pezzo, originariamente pubblicato il 13 agosto scorso, l’autore porta avanti una critica impietosa nei confronti delle celebri guide Lonely Planet e Rough Guides. Il motivo? Entrambe, in breve, sarebbero propense a giustificare o presentare sotto vesti accomodanti le dittature di molti dei paesi recensiti.
Moynihan inizia tracciando un parallelo con quanto successe a partire dagli anni ’30, quando la rivista americana di sinistra The Nation aveva parole dolci per l’Urss e – addirittura – il Kgb. “Durante la guerra fredda, questo genere di turismo ideologico era una prerogativa quasi esclusivamente della sinistra [...] e, anni dopo il crollo del Muro e dell’Unione Sovietica, gli sconfitti della guerra dell’ideologia possono ancora partecipare a costosi reality tour nella Cuba di Fidel Castro o nel Venezuela di Hugo Chavez”.
Le guide Lonely Planet, come spiega l’autore del pezzo, sono nate grazie ai coniugi Wheeler, due hippie britannici che negli anni Settanta decisero di dare alle stampe un vademecum del viaggiatore nel sud-est asiatico, che permettesse ai giovani meno abbienti di risparmiare. Mark Ellingham, invece, fondò Rough Guides nel 1982, in opposizione concettuale alle guide turistiche del tempo, da lui giudicate in deficit di dettagli sul contesto politico contemporaneo dei paesi trattati. Nobili fini, quindi. La loro colpa, però, secondo Moynihan è essersi arricchiti a dismisura senza aver abbandonato il loro orientamento politico.C’è di peggio, anzi: ” [le guide] seguono tutte lo stesso schema: un riconoscimento formale della mancanza di democrazia e libertà seguito da esercizi di relativismo morale“. O ancora “l’immancabile ritornello secondo cui l’arretratezza economica dovrebbe essere vista come autenticità culturale, per non parlare di un lodevole rifiuto della globalizzazione e dell’egemonia statunitense”.
Queste parole vengono giustificate dal giornalista col preciso riferimento ad alcune guide Lonely Planet – Libia, Iran, Corea del Nord – e a passi che tenterebbero di ridimensionare i crimini di dittatori come Gheddafi e Ahmadinejad. Tuttavia, come spiegato dal direttore editoriale di Lonely Planet Stephen Palmer in una lettera inviata a Foreing Policy, i brani utilizzati da Moynihan si riferiscono a pubblicazioni precedenti a importanti eventi politici o addirittura fuori produzione. Senza contare che spesso sarebbero del tutto decontestualizzati (esempio: come spiega Lee Marshall su Internazionale, l’autore utilizza un pezzo in cui Kim Jong-il viene descritto come “aperto al cambiamento”; in realtà, nelle pagine precedenti della guida Lonely Planet gli abusi e la mancanza di libertà in Corea del Nord sono regolarmente denunciati, ma l’attitudine del figlio è sottolineata essere meno totalitaria di quella del padre).
Il pezzo apparso su Foreign Policy ha, a mio modo di vedere, dei limiti evidenti: innanzitutto postula che chi viaggia sia un idiota (o meglio: un idiota di sinistra) e voglia, nella maggior parte dei casi, essere impastoiato con racconti di un’età d’oro che il mondo occidentale avrebbe perduto. In secondo luogo Moynihan, nella sua pur interessante critica a un certo tipo di turismo, dimentica colpevolmente che qualunque viaggiatore cerca di marcare la sua esperienza con qualcosa di caratteristico. Non solo il figlio dei figli dei fiori, il punkabbestia o qualunque altro stereotipo “di sinistra” possa venire in mente.
Sappiamo bene che l’occidente non è solo Mc Donald’s, globalizzazione e spietate multinazionali, certo. Ma sappiamo anche che in viaggio tutti – dai romantici neo-sessantottini ai miliardari del Texas – premiano le mete caratteristiche, diverse e, in qualche misura, “autentiche”. La lunga critica concertata dall’autore sarebbe anche valida, se solo riuscisse a provare di aver la casa zeppa di album di foto scattate negli stabilimenti sudamericani della Coca Cola.