È un peccato che in Italia, soprattutto sotto le festività di fine anno, l’intelligenza e il buon gusto dello spettatore medio stacchino inesorabilmente la spina per abbandonarsi alla visione degli imbarazzanti carrozzoni allestiti dai nostrani pseudo-comici. È un peccato perché, in mezzo alle immarcescibili accozzaglie vacanziere firmate De Laurentiis o alle altrettanto indigeste poltiglie firmate Pieraccioni, ci sono ancora bagliori di cinema intelligente come “The Artist” o come questo “Le idi di Marzo”, piccole gemme di fine anno che stentano a farsi riconoscere da platee imbarbarite e “drogate” senza rimedio dalla televisione. Un contrasto reso ancora più stridente dal fatto che i nostri cine-lassativi non sono operette del tutto innocue o scevre da tossici condizionamenti mentali. Perché se Clooney firma un apologo rigoroso e necessario sulla seduzione del potere, in Italia ci si ostina a propinare al pubblico prodotti, come quelli sopra citati, che fra vacanze innevate, tamarri fedifraghi e stucchevoli liaisons con esotiche modelle, non fanno altro che esprimere con altri mezzi l’etica (e l’estetica) imbonitrice di chi governa e colonizza l’ideologia del cittadino qualunqu(ista) da almeno un trentennio. Un cinema (?) che sotto il miraggio della facile evasione induce piuttosto lo spettatore a sospendere qualsiasi procedimento critico di analisi della realtà. In una parola a non pensare. Pensare è invece l’onesto obiettivo intellettuale che si prefigge “Le idi di Marzo”, quarto lavoro da regista di George Clooney, la più liberal fra le star del terzo millennio, democratico da anni “sposato” alla causa del cinema intelligente del quale egli stesso, smessi del tutto i panni del sornione seduttore degli anni ’90, rappresenta oggi uno degli interpreti più convinti e convincenti.
“Politico” il cinema di Clooney lo è da anni sia per le particolari scelte interpretative (gli ottimi “Michael Clayton” o “Tra le nuvole”) che per quelle registiche (perché esordire con la storia del presentatore-killer di “Confessioni di una mente pericolosa” e proseguire con il J’Accuse sul maccartismo in bianco e nero di “Good Night, and Good Luck.” non è pane per tutti a Hollywood); i suoi film da quasi un decennio sono garanzia di intelligenza ed hanno rappresentato un valido antidoto per la sopravvivenza del libero intelletto durante il buio dei due mandati Bush. Oggi l’attore, in piena Era Obama, si propone nuovamente al pubblico con questo ritratto di governatore democratico in corsa per la Casa Bianca che è ben lontano da ogni possibile intento apologetico nei confronti della sinistra anche se, come si svelerà nel corso della vicenda, non è tanto l’ideologia ad essere messa sotto accusa dal regista quanto i meccanismi di adescamento della politica e la mercificazione di ogni morale. Clooney adatta infatti una pièce del 2008 nota come Farraguth North evitando però di esplicitare la metafora contenuta nel titolo; il riferimento, va detto, è a una stazione della metropolitana della KStreet di Washington, sede delle lobby dove si riciclano gli ex spin doctor dei politici, figure a metà fra consulenti d’immagine e abili manipolatori dell’informazione sugli stessi. Per farla breve quelli che levano il sudiciume da sotto la suola dei candidati e ci piantano sopra i ciclamini.
Ryan Gosling (sempre più bravo in un cast a dir poco perfetto) è uno spin doctor ancora puro ed ingenuo, il cui idealismo è pari solo all’abnegazione mostrata nei confronti del governatore Morris (un George Clooney con lampi luciferini) politico che pare la moderna incarnazione di un fantasma di kennediana memoria, diviso com’è fra impegno ecologico, libertà sessuale e anti-capitalismo. Ovviamente niente è ciò che sembra dentro quel gioco perverso che è la politica e la cui unica (vecchia) regola è lasciare che tutto resti come prima. Il limpido consigliere, all’alba delle idi di Marzo, imparerà la lezione a sue spese scontrandosi con congiure di palazzo che però non lasceranno sul campo né sangue né cadaveri (almeno non quelli eccellenti) ma un’unica, silenziosa vittima: la sua anima. Il riferimento alle idi non induca dunque in inganno: qui non sono di scena sanguinose cospirazioni ma solo un più sottile teatro delle ambiguità umane dove la politica, più che il motore, rappresenta il combustibile di quelle medesime passioni, illusioni ed avidità che da secoli sconvolgono l’essere umano rendendolo un tetro spaventapasseri di sé stesso. Una pellicola in cui tutti dubitano degli altri e in cui anche lo spettatore è portato continuamente a chiedersi a cosa stia assistendo effettivamente, se al dramma di un’anima in discesa libera verso il comodo inferno del compromesso o al compiersi di uno “svezzamento” politico in cui coscienza, etica e moralità sono solo scorie di cui liberarsi prima di spiccare il volo.
La vicenda, più vicina al dramma shakespeariano che ai thriller di denuncia degli anni ’70 (anche se certe sequenze, come l’uscita di scena di Philip Seymour Hoffman, sono figlie dirette di quel cinema) si libra così ben al di sopra del suo archetipo più o meno prevedibile per divenire un sommesso ma folgorante pamphlet che induce lo spettatore a interrogarsi sul vero significato della politica che, prescindendo da qualsiasi confronto ideologico, non è altro che quel territorio d’elezione sul quale si consumano i processi di trasformazione dell’essere umano e i suoi ribaltamenti valoriali ma anche una spietata lotta per la sopravvivenza. Homo homini lupus sempre e per sempre, solo che stavolta la battaglia più intrigante non è quella che si combatte per accaparrarsi l’ultimo senatore o lo Stato più influente ma quella che si consuma fra un whisky e una camera d’albergo, sul sedile di un bus o davanti al bancone di un bar. Un bar che solo la settima arte riesce magicamente a rendere arido e teso come un far west nel pre-finale fra Morris e Meyers, ultima immagine preziosa del 2011 ma anche la prima degna di rilievo di un’annata cinematografica nata già sotto il segno dell’apocalisse morale.