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Le intermittenze dell’assassinio: “Non ricordo se ho ucciso” di Alice Laplante
Creato il 22 gennaio 2013 da Alessandraz @RedazioneDiarioRECENSIONE In principio c’era Faulkner, che prendeva in prestito una citazione del Macbeth di Shakespeare per creare, per il suo romanzo “L’urlo e il furore”, un “tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”: così abbiamo scoperto che cosa significa avere a che fare con un narratore inaffidabile, come è l’ “idiota” Benjamin creato da Faulkner e com’è la malata di Alzheimer Jennifer White, ex chirurgo e voce narrante di “Non mi ricordo se ho ucciso”.
Nella prima parte del romanzo abbiamo a che fare con una storia piena di buchi, talvolta parzialmente colmati dal diario che Jennifer tiene per inseguire i pensieri che sfuggono, in cui i personaggi entrano ed escono dalla scena, talvolta da persone note e altre volte da perfetti sconosciuti: sì, perché è solo questione di giornate buone o cattive, da null’altro dipende il fatto che Jennifer sappia, di volta in volta, chi è la donnona bionda che vive con lei (la sua badante Magdalena), la servizievole ragazza tatuatissima che la va a trovare (Fiona, la figlia ribelle e brillante), il giovane uomo che scambia per suo marito e che le chiede sempre soldi (in realtà si tratta dell’ispido figlio Mark), oppure un’insistente signora che compare talvolta, col taccuino alla mano, per sapere tutto su cos’ha fatto in una data sera, la stessa sera in cui (ma lei spesso non se lo ricorda) la sua migliore amica Amanda è stata trovata morta, con tutte le dita della mano rimosse chirurgicamente. Un caso di omicidio di cui è una delle principali sospettate (giacché ha appena concluso una lunga carriera da chirurgo specializzato nella mano) che si intreccia con il degenerare dell’Alzheimer: un trafila dolorosa che la vede protagonista di baratri profondi, alternati a schiarite di limpida lucidità, fino a un finale profondamente inaspettato. La maestria stilistica di Alice Laplante dipinge un quadro distorto ma del tutto verosimile, costruito come uno specchio rotto, le cui schegge ci rimandano contraddizioni:
La tecnica usata per veicolare il progressivo spaesamento di Jennifer è estremamente efficace; infatti, la prima parte del libro (ambientata a casa di Jennifer) è narrata in prima persona, la seconda parte (dove la ritroviamo in una casa di cura) in seconda persona, come se la narratrice si guardasse da un esterno ravvicinato, la terza parte (quella relativa all’internamento in un ospedale psichiatrico) è in terza persona, a simboleggiare un’alterità patologica e definitiva da se stessa, una discesa negli inferi senza ritorno di una malattia senza scampo.
I personaggi, da quel che se ne deduce, sono tutti delle creature fragili e complesse, in pesante disequilibrio, con un lato negativo che risulta molto più accentuato rispetto a quello positivo: ho concluso il romanzo pensando ai figli, all’amica, alla badante, al marito morto, alla stessa Jennifer come a un’autentica galleria di mostri; non i mostri assassini che si nascondono agli angoli delle strade e nei servizi di cronaca nera di Studio Aperto, ma i mostri di egoismo, pressapochismo e menzogna che albergano dentro ognuno di noi.
Non vi nascondo che si tratta di un testo impegnativo, che va seguito e meditato e risulterebbe sprecato per una lettura “all’acqua di rose”, non è un libro della buona notte: tuttavia personalmente l’ho trovato anche godibile come giallo, per cui è sicuramente una storia con numerosi livelli di lettura. A volerci trovare qualche sbavatura, posso dire che la risoluzione del caso (come in ogni giallo) è funzionale alla narrazione e forse non è del tutto verosimile immaginare uno schiarimento così repentino e puntuale in una persona affetta da uno stadio tanto avanzato della malattia, tuttavia il romanzo andava terminato e sarebbe stato davvero ardimentoso, quando non impossibile, proporre un’uscita di scena migliore. Ottime la traduzione e le scelte grafiche per la copertina (interna ed esterna: ne trovate un assaggio qui di fianco). Di sicuro è un libro che entrerà sgommando nei testi dei corsi di scrittura creativa americani e, perché no, anche nelle nostre antologie di letteratura dei licei, a mostrarci che le parole possono ancora raccontarci anche l’irraccontabile, che possono dipingere efficacemente i quadri di orrore della nostra contemporaneità.
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