di Luca Barana
Mitt Romney è stato a lungo il candidato inevitabile del Partito Repubblicano, eppure ha dovuto affrontare uno ad uno gli altri aspiranti Presidenti del Grand Old Party che conquistavano a turno la vetta nei sondaggi, mentre il Presidente Obama preparava la sua compagna di rielezione. Al termine di una lotta più dura del previsto, Romney è emerso come l’unico candidato spendibile dai repubblicani a seguito del ritiro dalla corsa elettorale di Rick Santorum, l’ultimo avversario che l’ex governatore del Massachussets ha dovuto fronteggiare. Per mesi le cronache hanno sottolineato come la lunga battaglia in campo repubblicano favorisse Obama, tanto che quando Romney ha potuto festeggiare la propria nomination ufficiosa in maniera quasi inaspettata, una certa sorpresa è trapelata sui media ormai pronti a documentare un testa a testa fino alla convention di Tampa. Si è dimostrato pronto invece Obama, il quale ha immediatamente raccolto la sfida, imprimendo il proprio passo alla campagna elettorale e assicurandosi il ruolo di trend setter con le sue proposte in materia fiscale e sociale.
Obama pare voler capitalizzare il vantaggio acquisito durante la lunga e accesa campagna per le elezioni primarie nel campo repubblicano. Una competizione che ha costretto Romney ad allontanarsi sempre di più rispetto al centro moderato che potrebbe decidere le elezioni generali di novembre. Stretto fra l’onda lunga del fenomeno dei Tea Party e il successo nei sondaggi di personalità che cercavano di intercettarne le richieste politiche, l’ex governatore del Massachussets ha dovuto destreggiarsi in un contesto politico particolarmente complicato. L’alternarsi all’attenzione pubblica di politici quali Rick Perry, Herman Cain e Newt Gingrich, tutti accomunati da proposte più o meno estreme in materia di riduzione del carico fiscale e della spesa pubblica, ha costretto Romney ha snaturare, almeno parzialmente, la propria proposta politica. Senza contare la sfida in ambito sociale e dei valori morali lanciatagli da Santorum.
Obama cerca invece di riconquistare i liberal tramite la proposta della cosiddetta Buffet Rule in ambito fiscale e la decisa apertura all’opportunità dei matrimoni fra persone omosessuali. Ma allo stesso tempo utilizza il riflesso del proprio ruolo istituzionale, cercando di rassicurare i moderati rispetto ai proclami provenienti dal campo repubblicano e vantando i risultati in politica estera in quanto commander in chief. Questa mossa ha posto Romney in una situazione complicata, trovatosi a dover conquistare il voto convinto dei Tea Party e, allo stesso tempo, costretto ad inseguire il rivale democratico in materia sociale aprendo, ad esempio, alla possibilità delle adozioni da parte di coppie omosessuali. Nonostante i sondaggi decretino l’avvicinamento fra i due in termini di gradimento, la scelta del Presidente potrebbe costringere Romney a destreggiarsi fra proposte politiche in contrasto fra loro, aggravando la sua fama di flip-flopper. Ora che quest’ultimo è divenuto ufficialmente il candidato repubblicano dopo l’affermazione in Texas, la campagna elettorale entra nel vivo ma la strada che essa seguirà nei prossimi mesi pare già segnata.
Romney vira a destra
La crisi economica e la preoccupante situazione delle finanze americane egemonizzano oggi il discorso pubblico negli States. Non sorprende dunque che le primarie repubblicane prima e la campagna presidenziale poi si stiano giocando in ambito economico. Verrà eletto prossimo Presidente degli Stati Uniti colui che sarà stato in grado di convincere gli americani della propria capacità di creare nuovi posti di lavoro, frenando allo stesso tempo la traiettoria crescente del deficit federale. Non a caso Mitt Romney ha pubblicato nel settembre 2011 il documento programmatico della sua campagna intitolandolo Believe in America – Mitt Romney’s Plan for Jobs and Economic Growth. Le pressioni che il candidato repubblicano ha subito da destra ne hanno però condizionato le proposte, che con il passare dei mesi si sono allontanate da quanto presentato nel documento di settembre.
In materia di politica fiscale, il piano di Romney si fondava su due principi: la semplificazione del sistema fiscale americano e la sua stabilizzazione, in modo da rassicurare gli investitori e favorire la crescita del paese. Quasi scusandosi con i propri sostenitori e richiamando la celebre affermazione di Benjamin Franklin, secondo il quale “due sole cose sono inevitabili nella vita: la morte e le tasse”, Romney proponeva di mantenere i tagli alle personal taxes introdotti dall’amministrazione Bush, senza dunque intervenire per una loro ulteriore riduzione. Dopotutto, “abbiamo bisogno delle tasse per pagare le operazioni del governo”. Più incisivo invece il programma in materia di corporate taxes: la proposta infatti era quella di tagliare del 10% l’aliquota più elevata, dal 35% al 25%, per ridurre lo svantaggio competitivo dell’economia americana rispetto a regimi fiscali meno esigenti.
Sottoposto alle pressioni degli altri candidati, Romney ha però dovuto modificare il proprio approccio. A fronte infatti delle proposte radicali di altri candidati come Perry e Gingrich, che hanno promesso rispettivamente un taglio del 20% e del 15% delle personal taxes, Romney ha aggiornato il proprio programma, introducendo la previsione di un taglio generalizzato del 20% su tutte le imposte sul reddito. Un cambiamento notevole rispetto alle premesse di pochi mesi prima. Emblematico poi quanto accaduto durante un dibattito fra i candidati repubblicani quando, alla domanda se il futuro Presidente sarebbe stato disposto ad aumentare le tasse di un dollaro per ogni taglio di dieci dollari della spesa pubblica, Romney si è unito al resto dei papabili alzando la mano.
Le scelte in materia fiscale sono strettamente legate alla scottante materia della gestione del debito, una questione su cui Romney interveniva con decisione già nelle sue prime proposte, rivendicando un taglio deciso della spesa pubblica federale e prevedendone un tetto massimo del 20% sul PIL. Cut, cap and balance lo slogan adottato allora. Oggi, alle perplessità circa la sostenibilità di tali ottimistiche previsioni a fronte delle modifiche in materia di tasse, Romney risponde che attraverso un taglio delle cosiddette loopholes (espedienti fiscali, nel gergo politico americano) sarà possibile perseguire entrambi gli obiettivi con successo, senza però specificare dove e come si vorrebbe intervenire.
La risposta di Obama
Alla radicalizzazione delle posizioni economiche del rivale repubblicano, accusato di voler arricchire ulteriormente i cittadini benestanti a scapito delle famiglie del ceto medio, Obama ha risposto inaugurando la propria campagna elettorale, quantomeno a livello mediatico, rilanciando di fatto la proposta della cosiddetta Buffet Rule. In realtà, la misura era già stata proposta nel corso del 2011 dal Presidente che ne aveva poi confermato la bontà durante il discorso sullo stato dell’Unione del 2012. Non a caso, però, la nuova norma ha ottenuto maggiore visibilità mediatica quando Romney si è rivelato con relativa certezza il vero avversario di Obama. Questa proposta appare in effetti come una risposta del team elettorale di Obama al cambio di rotta nelle proposte politiche di Romney: ispirata dalle affermazioni del miliardario americano Warren Buffet, che ha denunciato di pagare un imposta sul reddito relativamente inferiore rispetto a quella della sua segretaria, la Buffet Rule punta a riconquistare il favore dei liberal e possibilmente delle frange più moderate del movimento Occupy Wall Street, che nell’ultimo anno ha conquistato le prime pagine negli Stati Uniti e altrove.
La proposta di Obama consiste nella previsione del pagamento da parte dei miliardari americani di un’aliquota effettiva di almeno il 30% sull’imposta sul reddito. Reddito che, secondo il team Obama, deriverebbe per la maggior parte da investimenti e operazioni finanziarie più che dallo ‘stipendio’ dei più facoltosi cittadini statunitensi. Un approccio evidentemente contrario alla politica di salvaguardia delle agevolazioni fiscali su risparmi ed investimenti promossa da Romney. Senza dimenticare che lo stesso candidato repubblicano è un miliardario con un passato nell’industria finanziaria, come figura di spicco di Bain Capital, specializzata nell’acquisizione di imprese in difficoltà e nella loro cessione dopo un’opera di ristrutturazione, che, secondo le accuse democratiche, spesso sfociava in licenziamenti e tagli del personale. Romney dunque è vulnerabile su due fronti, quello personale e quello del suo programma politico. L’affondo di Obama insomma non è casuale.
La Buffet Rule ispirata al principio dell’equità fiscale potrebbe così rivelarsi un importante strumento elettorale per Obama, ma la sua proposta è stata duramente attaccata dal Wall Street Journal, che ne ha criticato il supposto effetto di riequilibrio del bilancio federale. Se infatti Obama ha lanciato la sua idea affermando che essa “avrebbe stabilizzato il nostro debito e il nostro deficit per il prossimo decennio”, la critica del quotidiano e dei Repubblicani è feroce: se lo stesso team di Obama riconosce che il ritorno annuale della misura si aggirerebbe intorno ai 5 miliardi di dollari, come potrebbe incidere su un deficit stimato a 1200 miliardi nel 2012? La stessa Casa Bianca è stata costretta a ritrattare le affermazioni del Presidente, sottolineando che la misura è pensata per introdurre un criterio di equità nel sistema fiscale americano e non per sovvertire l’andamento preoccupante del bilancio federale. Qualche dubbio ha suscitato anche la possibilità che tale proposta possa costituire seriamente un rimedio ai problemi che l’economia americana sta incontrando, primo fra fra tutti quello della disoccupazione, nonostante i dati positivi dei primi mesi del 2012.
Anche a fronte di queste perplessità, rimane incerto come l’elettorato risponderà alla diatriba fra i due candidati in materia fiscale. Se da un lato infatti gli americani sono sempre pronti ad esprimere il proprio sdegno nei confronti del big government e le tasse ad esso collegate, atteggiamento che ha nei Tea Party la massima espressione, dall’altro le difficoltà economiche e il diffuso malumore nei confronti della finanza potrebbero bilanciare la contesa a favore di Obama. E siamo solo all’inizio di una lunga campagna elettorale che ridefinirà la scena politica americana, in un senso o nell’altro.