Sul quotidiano online britannico “The Guardian” lo scrittore Jonathan Franzen consiglia come lettura estiva il libro “Gente Indipendente” di Halldór Laxness.
Concordo. È un libro impegnativo (600 pagine). Ne approfitto per ripubblicare qui le impressioni che mi aveva lasciato, e che avevo redatto sull’altro blog.
Un uomo ha un solo sogno: essere indipendente.
Per 18 lunghi anni costui ha mangiato il pane altrui, finché è riuscito nell’impresa: acquistare un podere. E pazienza se è percorso da spiriti maligni e demoni, se le pecore muoiono o hanno i vermi, e la terra non regala nulla.
Bjartur il protagonista crede solo in se stesso, e nelle antiche saghe islandesi di cui recita i versi. Perderà la prima moglie, la seconda, i figli, ma resterà follemente fedele alla propria indipendenza, senza badare a niente, senza curarsi di nessuno.
Verrà la I Guerra mondiale “benedetta”, perché regalerà un po’ di benessere agli islandesi. Qualcosa sembra andare nella giusta direzione, ma è un’illusione.
Il podere divorato dai debiti sarà venduto all’asta, e toccherà ricominciare da capo, da un’altra parte.
E cosa resta all’uomo che ha cercato di essere indipendente? Forse solo l’amore per una figlia che non è neppure sua.
“Gente Indipendente” è un vigoroso abbraccio della terra d’Islanda a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Superstizione, fede (poca), l’arrivo delle prime cooperative, delle idee socialiste, degli scioperi. L’America lontanissima, gli spiriti maligni che percorrono la brughiera, la leggera ma feroce divisione di classe; tra contadini perseguitati dalla fame, dai pidocchi, e ricchi che ammirano (e ammirano solamente), la vita bucolica e agreste, e intanto si arricchiscono.
Bjartur è una sorta di Achab di terraferma che vive solo per rendere omaggio al suo sogno, ora vittima, ora dittatore privo di cuore, incapace di tenerezza, di pietà. Per sé, per chi gli sta accanto e nonostante tutto lo ama. A sconfiggerlo però non è solo la sua incapacità di essere uomo, divorato com’è dal desiderio di rivalsa, di dimostrare costi quel che costi il proprio valore.
Negli autori islandesi la natura interviene sempre, pesantemente. Anche se non si crede a nulla, demoni e streghe continuano a tramare, a lavorare per la distruzione di quanti non accettano di fare almeno un atto di omaggio al loro potere oscuro. Bjartur poteva riuscire ovunque, ma non in Islanda.
Una terra a parte, un universo popolato da uomini e creature in perenne conflitto, dove è necessario perdere ogni cosa per riuscire a capire quel sentimento che d’un tratto ci si ritrova tra le mani ruvide, inesperte, e che si chiama “amore”.
Iperborea. (traduzione di Silvia Cosimini).