Il padre di Thomas era sempre stato impegnato in qualche iniziativa tempestosa, finché una mattina, con un’occhiata rabbiosa alla moglie, come se fosse colpa sua, era morto secco, alla tavola della prima colazione.
Se esiste (ancora?) qualcuno che considera il racconto una sotto-categoria del romanzo; e che uno scrittore sia tale solo se ha scritto qualcosa di superiore alle 180 pagine, farebbe bene a ricredersi. Per esempio dedicandosi alla lettura dei racconti di Flannery O’Connor, e pubblicati da Bompiani. Il volume ha una mole rispettabile (e ghiotta): oltre 580 pagine.
Coprono un arco di anni che vanno dal 1946 (“Il geranio”) al 1965 (“La schiena di Parker”), e permettono al lettore di osservare l’evoluzione della scrittura della O’Connor. C’è anche un frammento di quello che sarebbe stato il terzo romanzo (“Amore e rabbia”), ma che non fu mai completato a causa dell’aggravarsi della malattia, che condusse la scrittrice alla morte. A nemmeno 40 anni.
Se i primi paiono interessanti, ma nulla di più, è col racconto “Il pelapatate” che (è una mia opinione), la O’Connor svolta. È come se tutto prendesse la forma giusta, la sua forma. Da lì in avanti, stile, dialoghi, temi, tutto è efficace, e ogni dettaglio è dove deve essere.
A parte qualche eccezione (come appunto “Il geranio” o “Il giorno del giudizio”), sono storie ambientate in quel sud degli Stati Uniti ancora adesso lontano dalla simpatia del turista medio. Quello che adora New York, Los Angeles, le megalopoli multiculturali e multirazziali dove in apparenza le opportunità sono offerte a tutti. Purché di talento.
I personaggi della O’Connor sanno il fatto loro; o almeno lo credono fermamente. Che siano atei, o ferventi credenti in Gesù Cristo (siamo appunto nel sud protestante, bianco, della segregazione), hanno trovato il modo di affrontare la vita. Superfluo dire che è sempre il migliore, e quello giusto. Sono uomini o donne che conoscono la verità, tutte le risposte e probabilmente pure le domande.
Niente sembra capace di mettere in dubbio la loro superiorità intellettuale (“Gli storpi entreranno per primi”), o razziale, (“Punto omega”), oppure religiosa (“Un brav’uomo è difficile da trovare”).
In questo paesaggio piatto, tranquillo ma in realtà bruciato da una profonda indifferenza per gli altri, per sé stessi, accade però qualcosa che con violenza frantuma l’equilibrio. Può essere un pugno, una malattia, l’incontro con una banda di tagliagole, un predicatore… Il risultato però non è consolatorio, mai. Non è lo scopo della narrativa (chi vuol essere consolato, si affidi agli spot pubblicitari), e non lo era certo della O’Connor.
La scrittrice statunitense sembra lanciare una sorta di allarme. C’è un’ottusità nell’essere umano che dovrebbe mettere in allarme chiunque abbia la pretesa di conoscere o capire la sua natura. Nei racconti, la fede, o la cultura sono usati dai suoi personaggi per creare distanze, e disprezzare con più facilità chi non crede, oppure non ha studiato. Ecco l’ottusità di cui parla la O’Connor.
Tra un bifolco illetterato, e uno sprezzante professore, sembra suggerire la scrittrice, è difficile scegliere. Il primo almeno, può svelare una certa capacità di adattamento (persino una certa apertura), che il secondo, spogliato della sua sapienza, rischia di non avere. E resterà a contemplare le macerie della sua sicurezza senza essere in grado di fare appello a sé, alle proprie risorse.
Molti parlano del grottesco, della violenza (“Il giorno del giudizio” per esempio, col vecchio la cui testa viene forzata tra le aste della ringhiera), di Flannery O’Connor, e si chiedono per quale ragione leggere un’autrice tanto particolare. Per via del suo talento, potrebbe essere la risposta migliore. Per l’ironia con cui tratta i personaggi, e le loro idee.
Per la capacità di narrare storie dove lo straordinario prende a cazzotti l’ordinaria vita delle persone perbene e sicure di sé. E questo straordinario può essere per esempio… un toro.
Tutti i racconti – Flannery O’Connor (Bompiani). Traduzione a cura di Marisa Caramella e Ida Omboni.