Pubblicato da giovanniag su febbraio 1, 2012
Testo di Giovanni Agnoloni
Di solito al mare, almeno in Italia, si associano scenari di luce, sole e calore. È curioso, invece, come i miei ricordi di Castiglion della Pescaia, una delle più ridenti località turistiche della Maremma, siano di nuvole e foschia. Esterne, in qualche giornata di pioggia, ma soprattutto interiori.
Ci sono stato tante volte, fin da piccolo, coi miei, da solo e con amici. E sempre, per me, ha rappresentato un crocevia, e insieme una visione che si levava da un mondo in dissolvenza.
Il primo anno che ci sono venuto sarà stato quand’ero in prima elementare. Durante il viaggio avevo dormito sul sedile posteriore della Giulia, un’Alfa Romeo che solo a ripensarla evoca passato. Mi svegliai sulla Via Costiera, circondato dalla pineta litoranea, e poco dopo mi apparve il profilo arroccato del paese, con il castello e la torre della Pieve di San Giovanni Battista.
Poi Castiglione è rimasto in un angolo della mia memoria, e ci sono ricapitato soltanto a ventitré anni, di ritorno dall’Erasmus, solo e in cerca di un filo conduttore personale che in Inghilterra avevo trovato, ma che, una volta rimesso piede in Italia, mi sembrava di aver perso.
Quella fu un’estate particolare, in cui i ricordi di giornate regolari coi genitori e gli zii, scandite dagli ottimi pasti serviti dalla centralissima pensione in cui alloggiavamo, cedettero il passo al mio ritmo random, ad amicizie e racconti strampalati e alla dinoccolata ricerca di un’identità che aveva solo bisogno di tempo per emergere.
A Castiglione, in quell’estate del 2000, non ci furono serate al cinema all’aperto sotto il castello, com’era da bambino. Come quella volta, nel 1986, in cui eravamo venuti a vedere I due carabinieri, con Enrico Montesano e Carlo Verdone, mentre Mei, Cova e Antibo monopolizzavano il podio dei 10.000 metri ai Campionati Europei di Atletica Leggera.
No, all’esordio del nuovo millennio le cose erano cambiate. Ci furono serate al pub sulle pendici della collina, rimbalzi con straniere che sembravano starci e poi proferivano il primo stronzo che gli offriva una canna, una storiella da mare con una ragazza marchigiana e un’amicizia inattesa con una famiglia gallese. Il tutto sulle stesse strade di una volta, cambiate quasi in niente, col porticciolo che si allungava fino al faro, dando spazio a pensieri peregrini che avevano bisogno di iodio per sfiammarsi, e la strada interna, dietro i vecchi stabilimenti balneari, con il chioschino dei giornali esattamente dove lo avevo lasciato l’ultima volta.
E poi ci fu un’altra pausa, di ben dieci anni, dopo la quale sono tornato a Castiglione in compagnia di un amico, durante una tre-giorni maremmana che la sera spesso finiva qua, a bere una cosa e a parlare delle nostre ragazze, presenti, passate e future.
C’è una panchina, lungo il corso pedonale coi negozi, dove ci fermammo, e per un po’ non parlammo. A lui giravano, per motivi suoi. Ma anche a me, in fondo. Mi mancava qualcuno che avevo perso. Poi il mio amico si allontanò per fumarsi una sigaretta, e io rimasi a sedere su quella fresca pietra, sorbendo il mio gelato in coppetta. Quando finii e mi alzai, vidi una faccina, disegnata a pennarello proprio dove, fino a un secondo prima, era stato seduto. Una linea stondata ad arco che tracciava un sorriso, e due puntini al posto degli occhi. Fu un segnale rassicurante.
Anche perché lo scorso settembre, quando sono venuto di nuovo nello stesso posto con quell’amico e altri, la faccina non c’era più.
Quando ripasserò di lì, non starò neanche a guardare. Tanto Castiglione pesca nella mia vita giusto quello che serve.