Affonda le radici nei recessi della psiche umana, ma anche nel teatro greco classico di Euripide il film “Venere in pelliccia” di Roman Polanski
Con occhio sapiente la macchina da presa del celebre e controverso regista franco-polacco, proietta lo spettatore in un teatro di periferia (periferici saranno anche i meandri della psiche umana che il film si appresta a scandagliare) dove un regista d’avanguardia ha riadattato un romanzo dell’ottocentesco autore austriaco Leopold von Sacher-Masoch, ricavandone una pièce teatrale. Il regista (Mathieu Amalric), che interpreta il barone Herr Severin nella finzione teatrale e il fragile regista Thomas sulla scena, viene inquadrato mentre al telefono si sfoga con la sua fidanzata lamentandosi di avere audizionato 35 attricette senza trovarne alcuna che, neppure lontanamente, rivestisse i crismi recitatori che egli va ricercando per il ruolo femminile del suo dramma.
Ecco che all’improvviso compare in scena Wanda von Dunajew ( l’attrice Emmanuelle Seigner) che per una serie di disguidi non solo è giunta in ritardo per l’audizione ma non figura nemmeno nell’elenco in possesso del regista).
Nonostante il suo aspetto dimesso e apparentemente inadatto alla parte, il regista si fa convincere a farle provare la parte di Vanda, il personaggio femminile che egli va cercando per mettere in scena la sua pièce teatrale.
Sul proscenio avviene così l’eccezionale trasmutazione: l’insignificante attricetta si trasforma in un istrionesco animale da palcoscenico. Da questo momento i due piani della narrazione, quello teatrale e quello cinematografico si intersecano e si confondono in un groviglio via, via sempre più inscindibile ed inestricabile.
All’inizio, infatti, i ruoli sono chiari: il regista, dall’alto della sua posizione di forza, cerca un’attrice che sappia interpretare Vanda (il personaggio della storia cinematografica ha per magica coincidenza lo stesso nome del personaggio teatrale che il regista sta cercando); il personaggio teatrale deve essere capace di risvegliare nel barone Herr Severin, l’altro personaggio della pièce teatrale, i suoi sentimenti di fragilità, i suoi desideri di masochismo (che affondano le radici nel controverso rapporto da lui vissuto nell’infanzia con una zia dominatrice che giunge a frustrarlo a sangue, umiliandolo di fronte alla servitù sino a fargli chiedere pietà in ginocchio davanti a lei) mostrando una giusta dose di elegante e femminile sadismo).
In questo intreccio inestricabile di attrazione sessuale e di dolore, di sofferenza fisica e di fragilità psichica, di voglia di possedere sessualmente ma anche di essere dominati psicologicamente si snoda la trama, attraverso l’intersecarsi dei ruoli, con riferimenti al teatro greco ed in particolare alle Baccanti di Euripide, fatti richiamando esplicitamente Dioniso, che fornisce la sua carica di sessualità e di follia soprattutto alla protagonista femminile.
La pellicola, al culmine della sua vicenda, inverte (con un coup de theatre vero e proprio) i ruoli dei due unici protagonisti: Vanda diventa Herr Severin, mentre il barone diventa Vanda.
Il film si chiude con la sensuale danza di Vanda che richiama la danza dionisiaca di amore e di morte delle Baccanti di Euripide.
Insomma, una buona pellicola sull’eterno gioco di seduzione e dominio tra uomo e donna, che vede quest’ultima vittoriosa. In sintonia con la citazione, tratta dal libro di Giuditta: “E Dio lo mise nelle mani di una donna” (Cap. 13, verso 15.mo del libro).
A tal proposito una curiosità: Giuditta viene citato come libro apocrifo (così è per Anglicani, Protestanti ed Ebrei); ma per Ortodossi e Cristiani si tratta di un libro canonico, riconosciuto e inserito nella Bibbia a tutti gli effetti.