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Le Pagelle di Pizzuto

Creato il 16 agosto 2010 da Fabry2010

Le Pagelle di Pizzuto

XV. O dolce legno in privilegiata esistenza indomito contro insidie a germoglio radica foglioline, assetando, ancora nel fracido, sotto rosura, e se oppresso, o guasto, distrattine coltelli titirei, capre, saette, albero senz’altra sorte, ceduo, ingenerativo, sol ricco di cicatrici. Discostivi uccelli, in scanso la lucertola: bosco retrorso all’inaridire da presso. Tribolati stuoli concorrenti ascoltando avidi mai sempre inopinabile verbo, appena inteso legge eterna; poi accolti in giro, non che accegge, pane azzimo cibo sospeso, interrogativi chi tu? Amare nemici. Pur meccanica una giustizia di qua. Lode al prevaricatore furbo. Nel pergere accalcati dattorno, limpida effondendosi l’aramaica favella oltre plaga, eminente spesso, più o meno lungi, come agile campanile esso fusto in crescita: l’òcchiola scure ben prossima a reciderlo. XVI. Buona notte Dolce immettersi in rimboccatura, precedente bivacco rotule cupole, ultimo cedevoli fra lino e lana calando ad occulta requie nel viluppo simile un guanto. Là dattorno ordinale fermo quadrato, difesa a tuttoltranza. Con suoi giambi il cuccù matura compieta d’infra i grappoli disdegnati alla volpe, nello scrittoio limitrofo; e favolose nenie entro cameretta per contumace dormeggio, verso iterative appalpate. Che inescrutabile ascondello da falce, a spigolatrice pur callida, sonagliante furetto. Sudditi gli altri, ecco pace affine con la prediale, oltre finestrino: onde in messe volatili suoi ruminari l’esalifera stalla, grifi tal monotono contrabbasso, disparte borbottona chioccia in bacucco; a rilento gavio dopo gavio contro ciottoli ruote artigiane carro. Perdere felicità, privilegio ai buoni; per il suo verso ogni che: in dileguo ostili potenze dal temuto verduco. Palpebre converse, levigati respiri, isolarsi roveretano.

Antonio Pizzuto, Pagelle, edizione critica commentata di Gualberto Alvino, Firenze, Polistampa, 2010.

Copertina Pagelle

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Dall’introduzione di Gualberto Alvino: Pagelle rappresenta, è noto, un momento capitale nell’evoluzione stilistica del prosatore più sperimentale dell’altro secolo: il passaggio dal regime delle lasse («episodi» inscritti in un unico disegno narrativo […] e dominati dall’imperfetto, tempo della duratività e soprattutto dell’indeterminazione) a quello, appunto, delle pagelle: brevi componimenti in sé conclusi, caratterizzati dalla soppressione del verbo ai modi finiti, con relativa, inevitabile disgregazione di personaggi e vicende: quelli depressi a simulacri destituiti d’ogni potere sul piano tematico e agenti quasi in absentia (l’analisi psicologica è bandita insieme all’io giudicante), queste a illusorî motori d’intreccio (minimi, se non del tutto assenti, i nuclei referenziali parafrasabili senza grave nocumento per i valori significativi) polverizzati da una visione subatomica postulante l’assoluto in ogni particella («L’osservatore non può essere continuo in un mondo di cose discontinue»), per una sempre più austera, rarefatta formalizzazione, cui coopera la diffusa omissione degli attualizzatori del nome, la seriazione paratattica sincopata dall’asindeto e, come avviene in poesia, l’orchestrazione della testura fonica, con uso in copia di parallelismi, ripercussioni timbriche, strutture iterative. Ma specialmente la compagine musiva, contesta d’infinite memorie variamente addentellate: impressionante lo spiegamento di citazioni prestigiose (non valori legislativi né serbatoi di conoscenza, ma pura esibizione di modelli formali o di mirabili sintesi ritmiche), allomorfi arcaici, moduli sintattici classicheggianti, riscritture di cose proprie o altrui talmente dissimulate, trasfigurate o scarnificate («per forma conveniente io intendo dire soprattutto la concisione») da rendere estremamente gravosa la ricerca di fonti e auctoritates. Un rito intertestuale, a un tempo ironico e sacrale, officiato all’insegna della più energica spregiudicatezza verso il linguaggio e d’un’onnipotenza espressiva senza confronti nella storia delle nostre lettere. […] L’essere delle cose — sostiene Pizzuto contro il determinismo meccanicistico, di cui la sua poetica è negazione recisa nelle forme sia del contenuto che dell’espressione — equivale all’essere percepito («esse est percipi»), in quanto l’oggetto conosciuto dipende esclusivamente dall’io percipiente: ne consegue l’impossibilità di penetrare l’essenza del reale e di conoscere le cause efficienti dei fenomeni. […] Nulla esistendo al di fuori dello spirito, è necessario non pure creare ex novo una lingua in processo perpetuo che rispecchi ed esprima in tutta la sua rete d’implicanze l’inattuabilità della conoscenza oggettiva nonché la discontinuità di pensiero e vita, ma un diverso sguardo da spiegare sul mondo: seconda vista che sappia scorgere, come nella migliore tradizione del simbolismo figurativo, il vero, ossia il poetico, al di là del reale, alla cui molteplicità il narrare — sfornito di centro e disperso in mille rivoli, ciascuno dei quali insieme marginale e centralissimo — non solo è perfettamente omologo, ma incessante adaequatio; di qui l’abnorme ingrandimento del dettaglio (la cellula vale quanto il tessuto; la monade è specchio del macrocosmo) e la sua promozione a protagonista assoluto del campo visivo, con gli effetti nefasti che ne derivano in sede interpretativa. Ogni discrimine tra res cogitans e res extensa è completamente abolito. La realtà esiste solo in quanto nominabile, tramutabile in segno. Una cosa non è ciò che è, ma la costellazione delle cose che sembra — meglio: potrebbe sembrare — e richiama alla mente. Il gusto per l’immagine, la parola-oggetto, i valori fonici puri, e soprattutto per l’ori­ginalità ad ogni costo di nessi e paralleli (chi vorrà negare le tentazioni estetistiche, perfino parnassiane dell’ultimo Pizzuto?), fa sì che la pagina diventi una trama anarchica di corrispondenze, similitudini e rapporti tanto arditi e misteriosi da rasentare l’impenetrabilità; una pagina tessuta da un continuo, inesausto metaforizzare — a sua volta figura dell’espansione coscienziale — e schiacciata in uno spazio-tempo svilito a pura virtualità (non si dà mondo più temporis expers di quello pizzutiano), che proprio per questo può contenere tutto il dicibile. […] Se ne ricava che scrivere è per Pizzuto non una sospensione d’esistenza, né pausa o nido scavato a forza nella vita, ma l’unica possibilità di vivere in autenticità e plenaria coscienza, perché è lampante che egli pensa scrivendo (si direbbe che l’idea non preceda la stesura ma ne sgorghi, sporca d’inchiostro, per suscitare, in un sistema d’interazioni e gemmazioni esponenziali, altre parole, nuove idee: pacchetti d’energia pronti a proliferare a loro volta) e si ritrova temprando i concetti alla fiamma del dubbio, attraverso il supplizio dei ripensamenti, delle rifazioni, delle rinunzie, dei cambî di marcia e di progetto, costantemente sotto il segno della più sfibrante fatica fisica, mai scansata con artifici e scorciatoie che pure non sarebbero mancati a un ingegno di quell’altezza, sì pervicacemente cercata quale unico varco per giungere al cuore delle cose, viverlo dal didentro e farlo esplodere (le consistenti variazioni del ductus e la convulsione del tratto in fase revisoria testimoniano che ogni pentimento, ogni sostituzione, ogni ritorno di penna scaturisce da un’accensione fulminea, poco meno che mistica, e genera epifanie che si ripercuotono a domino sull’intero movimento correttorio dirottandone il corso, come le increspature che si formano in un campo elettrico quando la carica si muove all’improvviso). Sicché non è azzardo asserire che l’ultimo Pizzuto stampato nudo è un Pizzuto monco, dimidiato, l’esplorazione della dimensione autografa — vero e proprio sistema in cui ogni particolare è totalmente semantizzato — resta, infatti, il solo modo d’accedere alla stupefacente officina per cogliere a pieno tutte le sfumature del processo creativo in perfetta simbiosi col creatore. Uno dei rari casi letterarî, forse l’unico, in cui il percorso conti quanto la meta. Se poi l’artificio riesca a trasformarsi in arte e ne venga assorbito senza lasciare scorie, se cioè l’unicità basti a risarcire gl’innegabili eccessi e a far sì che il poeta sbaragli l’artista, sarà il lettore a decidere.



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