Il mio saggissimo capo dice sempre “Se vuoi qualcosa, chiedi. Male che vada ti diranno di no” – e poi aggiunge ridendo : “Ai miei tempi io facevo così quando andavo a morose”.
In più di dieci anni di esperienza aziendale, è il primo della mia variegata sfilza di capi che mi sta istruendo secondo questo codice di comportamento. Gli altri sembrava facessero di tutto per inibire tale approccio: ”sta a noi decidere quando puoi fare qualcosa non a te domandare, occupati piuttosto delle cose che hai ancora da finire, non mi sembra proprio il caso, non è a budget, è prematuro, vedremo in futuro, si però in cambio dell’enorme opportunità che ti concediamo poi ci doni un rene”.
E così, dopo aver passato giorni a trovare il “coraggio”, non tanto di chiedere le mie piccole cose, quanto di affrontare il successivo immancabile diniego, mi ritrovavo spesso a gestire il senso di sconfitta, l’umiliazione e una buona dose di nervoso. Insomma, adesso parto prevenuta e, se razionalmente so che il contesto è completamente diverso, inconsciamente temo il ripetersi di un identico schema richiesta-rifiuto, con tutta la successiva, inutile ma inevitabile, elaborazione del “perché agli altri si e a me no?”.
Nei giorni scorsi, dopo un appassionato dialogo tra la mia parte pigra e quella iperattiva, tra quella che sta pericolosamente riconoscendo alla poltrona una confortevolissima comodità e quella competitiva e ambiziosa che mi ricorda che la strada è ancora lunga, ho messo a fuoco le mie priorità. Ho chiarito a me stessa quali potrebbero essere i miei prossimi obiettivi e di cosa ho bisogno per colmare le mie attuali lacune. La prima parte della faccenda, però, prevede un brevissimo ma super-qualificato, e costoso, corso di formazione che verte su un argomento che conosco molto poco ma che è fondamentale, secondo me, che io assimili. E alla svelta.
Ho quindi iniziato a preparami le frasi e ad immaginare la scena. E’ così che suggeriscono di fare i manuali americani di self management che anni fa mi imparavo a memoria, nella speranza di superare la fase della paura di farcela. Mi sono visualizzata mentre chiedevo, con voce sicura e frasi brevi e tranquille, “siete d’accordo se?”; mi sono costruita le risposte alle argomentazioni e al rifiuto; mi sono immersa in un contraddittorio e mi sono preparata a sostenere la mia tesi, anche a costo di un compromesso. La maggior parte delle volte troncavo bruscamente l’esercizio dicendo a me stessa che tanto non mi avrebbero mai approvato la richiesta e che era inutile tentare.
Ormai però avevo un tarlo nel cervello. Dopo aver chiesto consulenza a chi ha più esperienza di me, sempre più convinta che questo corso faccia proprio al mio caso, questa mattina alle quattro e mezzo ero sveglia, in piena fase adrenalinica, caricata come un giocattolo a molla e pronta a combattere. Alle 8 mi sono rivolta al primo livello gerarchico. Alle 8 e 5 secondi mi sono sentita rispondere “fallo, se ti interessa”. Alle 8 e 20 ho chiesto al secondo livello gerarchico. Alle 8, 20 minuti e 5 secondi mi sono sentita di nuovo rispondere “ma certo, va bene.” E, subito dopo “che idea interessante”. E tutto il mio bellissimo, logicissimo, agguerrito contradditorio si è risolto in un impacciato e spiazzato “ah, ok… allora… allora lo faccio.” Alle 8.30 mi sono ritrovata da sola con adrenalina, inutilizzata, in forte esubero e uno strano senso di sbalordimento.
Questo raccontino dei fatti miei è emblematico di uno schema di comportamento al quale, purtroppo, nonostante l’età adulta, io continuo a rimanere ancorata. Lavoro in un ambiente aziendale competitivo, stimolante, a volte difficile e quasi completamente maschile. Colleghe o superiori, intorno, con le mie stesse problematiche, ce ne sono pochissime. Vivessi in una grande città, sicuramente, le opportunità di confronto non mancherebbero e magari i miei dubbi me li sarei già chiariti. Le donne di provincia invece si devono arrabattare.
Sono consapevole delle mie capacità, ho imparato a mie spese a riconoscere i miei limiti. Eppure c’è ancora qualcosa che manca. Di cosa si tratta? Quali paure mi limitano? Non possiedo l’istinto del killer: funziono grazie ad ambizione, testardaggine e una certa onestà di fondo. Quando devo gestire le persone spiego e chiedo, fino a dove posso. Quando sono costretta ad usare il “potere”, ad alzare la voce, detesto i toni secchi che assumo, mi costa emotivamente fatica, mi sento a disagio e leggo le nuvolette che si formano sopra le teste altrui: “stronza”. Prediligo un approccio amichevole che, in alcuni casi, pochi per la verità, viene preso per arrendevolezza: quando la corda si tende troppo e intervengo a correggere il tiro è troppo tardi. Ci rimangono male e io con loro. Cerco di non essere maleducata o aggressiva. So che l’immagine che proietto di me non è del tutto consona al ruolo che ricopro e, ancora di meno, a quelli che vorrei ricoprire.
Questo genere di comportamento, purtroppo, in un mondo ad imprinting maschile, non è redditizio. Spesso, anzi, spinge la barca decisamente contro corrente. Le mancanze eclissano i punti di forza. Dando per scontato il mio rifiuto assoluto ad assumere certi atteggiamenti tipici della leadership del testosterone, che ho a lungo subito e che trovo carente e controproducente, mi chiedo, prima di tutto, se questo genere di perplessità, di freni, di timori, di emotività, di mancanza di autostima sia solo dovuto al mio carattere – e allora è meglio lasciar spazio a chi può fare meglio – o riconoscibile più in generale nei comportamenti delle donne sul luogo di lavoro. La domanda è parzialmente retorica. Anni di osservazione mi spingono a pensare che tante di noi si ritaglino con le proprie mani angoli d’ombra e luoghi di confino. Sono brava, brava abbastanza per potercela fare ma, se non riesco ad ammetterlo con me stessa, gli altri non se ne accorgeranno di certo. Perché prendo sempre tutto sul personale e rimango a lungo offesa mentre i colleghi si insultano pesantemente e due ore dopo vanno a giocare a calcetto insieme dandosi grandi manate sulle spalle? Perché è importante per me sentirmi parte di una rete di contatti di collaborazione nell’ambito in cui opero ma non sono capace di fare gruppo fuori e crearne una con scopi meno emozionali e più utilitaristici?
Mi domando, inoltre, se sia possibile trasformare questo tipo di debolezze in punti di forza che possano trovare una loro ragion d’essere all’interno del mondo aziendale e possano modificare, con l’andare del tempo, la percezione che i datori di lavoro più conservatori hanno nei confronti del management femminile. Uomo e donna possono, secondo me, avere accesso ad identiche possibilità e ne hanno il diritto, ciascuno con le proprie caratteristiche che devono essere modificate, se non idonee, o enfatizzate, se funzionali, nel rispetto delle differenze di genere che, sempre a mio parere, sono innegabili, vuoi per educazione, vuoi per biologia. A queste e ad altre domande, se c’è ancora posto e se verrà messa l’ultima firma ufficiale, forse sarò in grado di rispondere tra qualche settimana, alla fine del suddetto corso che, detto tra noi, mi attira e mi terrorizza nello stesso tempo.
Mentre aspetto a dita incrociate il nulla osta definitivo ma già valuto, in caso di un impedimento dell’ultima ora, l’ipotesi di ripiegare, come al solito, sulla via dei manuali di settore, vi chiedo pareri, esperienze, rassicurazioni, smentite o critiche feroci.