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Viaggiare insieme. Fare dei figli. Non rinunciare alla possibilità di trasmissione di esistenze legate ad un filo d’amore, quando va bene. Invece ti lascio insieme ai ricordi del nostro tempo. Io ho fallito perché non ho più creduto a noi, e a te. Ti lascio per sempre, e sarà così rapida questa notizia che ti attraverserà come una fitta, almeno spero, e ti abbandonerà subito, lasciandoti un piccolo vuoto. Dolore e sconforto potrai metterceli e non pensarci più. Ti auguro di fare così e di non soffrire per me, non sentirti in colpa se non vuoi stare male, è la cosa più giusta da fare. Nella terra dove andrò a morire il nostro distacco avverrebbe serenamente, e dato che già distanti lo siamo non angustiarti, io sono già morto, è successo, tu stavi leggendo ed io già non c’ero.
Lei è lontana qualche passo, è china a raccogliere dei fiorellini e il vento le smuove il vestito leggero che diventa un insieme di piccole onde e le vorrei scattare una foto ma ho dimenticato la macchinetta in albergo. Mi giro e l’oceano mi sorprende di nuovo, per un attimo ho paura e poi mi ci abituo, ma quando torno ad osservarlo è sempre troppo grande, immenso, lo guardo e cerco un punto che non c’è, non c’è mai, troppo. Io sono stanco e abbiamo fame tutti e due, ma dobbiamo aspettare mezz’ora prima che la corriera riparta per la città. Fra due ore avremo tutto a disposizione, l’albergo e i ristoranti, le passeggiate fra i turisti, l’odore di patatine fritte e pesce fritto e qualsiasi altra cosa che s’avvicini al naso, ma adesso siamo fermi e allo stesso tempo siamo finalmente stranieri in terra straniera, affamati e ansiosi di arrivare, di avere ristoro e compassione, finalmente. Intorno c’è solo oceano e scogliere, uno spiazzo per i pullman, il chiosco per i turisti, in pietra bianca, gelido all’interno per l’aria condizionata, pieno di statuine, cartoline e altre cose che non distinguo, che non riesco a guardare a lungo, che mi sembrano insignificanti, ma non so neanche se lo sono effettivamente. Come l’attesa e la noia, non so più se mi piacciono o se le detesto, io che mi sforzo di non fare il turista caprone che calpesta il mondo e lo sradica ingordo, e ci pianta la sua bandierina e la osserva tronfio, io che so o sapevo godere mentre aspettavo, la nave, le scalette, le file, gli scorci di paesaggio, i vicoli scarni, i panni stesi fuori. Allora ripenso ai viaggi che abbiamo fatto, io e Lei, ma questi momenti non ci sono, ho solo i bei ricordi, le cartoline mentali che ci siamo spediti a futura memoria e gioia, gli spruzzi d’acqua e le orme nel deserto, i tuffi dagli scogli e i pesci colorati. Cieli, cieli d’ovunque, stellati, tersi, minacciosi, infuocati e spenti, stelle cadenti, desideri espressi mentre le labbra esaudivano.
- Mi reggi la borsa? - … - Oi, mi reggi questa? - Che? - La borsa, me la reggi? - Ah, si scusa.
- a che pensavi?
- A niente.
- Però sembravi così preso.
- In effetti, qualcosa c’era, ma mi sfugge, non so se è una cosa cui penso o se penso a quello che sto pensando.
- Basta che non cadi di sotto, Einstein!
No, non cado, anche se è un’idea, sarebbe ottima, se ci si potesse tuffare senza farsi male, così, da un centinaio di metri, verso il mare di sotto, liberi da tutto. Se fosse possibile assaporare le sensazioni mentre si è in caduta libera. Ma non ci credo, mi sembra troppo veloce, dovrei provare il paracadutismo, me lo dico sempre, ma poi me lo dimentico. Ma come fa! È lì che sorride e mi guarda, mi prende in giro perché dico delle scemenze incredibili e mi sopporta, è felice, stanca come me ma è felice, sa ancora aspettare e apprezzare questi momenti di nulla estasiante, di polvere calda e accogliente, di sguardi fra persone di lingue diverse che si passano accanto a voce bassa e con discrezione, tutti ad osservare questo punto estremo d’Europa, a trattenere il fiato mentre ci si avvicina a piccoli passi sul bordo della scogliera, dove non c’è neanche un appoggio per le mani, per sporgersi in avanti senza rischiare di cadere. Oppure dovrebbe fingere, ma fingere con una maestria che non è concepibile se non si vuole pensar male ad ogni costo, gli occhi non dovrebbero mentire, i ciuffi di capelli che il vento fa frusciare, le ciocche che si attaccano agli estremi della bocca, tutto sta a dimostrare la sua felicità. Ci credo, le credo, maledetto io che non sono più capace, ho dimenticato le basi, ho buttato la mappa nel fuoco, ho smarrito il senso dell’orientamento vitale, non mi sento più nessun vestito comodo addosso, nessun colore è giusto, nessuna misura: troppo stretto, troppo largo, fa difetto, è pesante. Lo specchio, lo specchio. Io non mi specchio più, mi guardo di sfuggita per non trovare difetti, alito sulla superficie vitrea per creare confusione, cerco di uscire dal bagno prima possibile, lascio la mia coscienza a fare i conti con qualcun altro, che si trovi anche lei un’altra coscienza. Scappo al lavoro, corro in ufficio, chiunque incontro devo sembrare in perenne fretta, è tardi, è sempre tardi per tutto. Lei resta ancora salda affianco a me e sembra non soffrire, io quasi ci provo ad esasperarla, faccio dei tentativi che vanno sempre a vuoto, come se lei sapesse, o come, ed è quello che temo, che lei sia troppo lontana dalla mia inadeguatezza per accorgersi. Lei è rimasta umana mentre vive, io mi sono trasformato in cavia da laboratorio e scienziato pazzo allo stesso tempo, mi osservo e mi costringo, analizzo sadicamente e mi premio, tutto da solo, vicino alla follia, se fosse facile accorgersi di essere pazzo, ma non lo è.
- Dai alzati, che stiamo per partire, mannaggia che ti sei dimenticato la macchina fotografica, guarda che bello, dammi un bacio almeno, mettiamoci in posa per la natura, facciamo che lassù qualcuno ci sta guardando per decidere se sbarcare sulla Terra e ci vede e capisce che si deve sbrigare che sennò finisce lo spettacolo.
Guardare il mondo da un aereo mi rilassa, il sottofondo del motore e il brusio quasi inavvertito degli altri passeggeri mi cullano e mi rassicurano. La perfezione sarebbe poter stendere le gambe, addirittura sdraiarsi ed aspettare l’arrivo. Un aereo trasparente. Appena scesi il pensiero che sia finita qui mi coglie e sento che non mi lascerà più. Il disfacimento è completo, il mio unico obiettivo è non vedere che vuoto intorno a me, è non sentire altro che il mio respiro, e se possibile il mio battito cardiaco. Il mio lento morire dovrebbe avvenire al freddo, mi immagino che cammino nella neve, magari nella tormenta, sono un esploratore del suicidio, uno dei più bravi, e dunque non lascerò che la mia traccia, immobile e ghiacciata, e chissà se sarà ritrovata. Sento già freddo mentre sistemo le valigie e le borse nel taxi, mentre osservo il tassametro e le luci della città in piena notte a Roma e quando la guardo, vedo che anche Lei ha abbassato le difese e sta sognando di essere altrove. Poverina, c’è ancora da andare a prendere il treno, poi tre o quattro ore e ancora salire nella nostra macchina e arrivare a casa che sarà giorno e stenderci lungo qualsiasi cosa che sia morbida e grande abbastanza da contenerci. Senza contare la mia decisione.
Quand’è che sono diventato quello che sono.
Nella sala da concerto l’attesa sta diventando snervante, è passata già mezz’ora e l’orchestra ancora non è entrata, la campanella ha già suonato tre volte nell’indifferenza generale, si è mescolata al brusio compiaciuto, agli smoking e agli abiti da sera, ai gioielli e ai cellulari che non si spengono più, ai loro display che vivono di luce propria, tanti fuochi fatui a illuderci e a infonderci sicurezza. Come al solito non so niente di quello che andremo a sentire, sono anni che l’accompagno a questi eventi, anni che mi annoio e mi sforzo di apprezzare, senza risultati: io questa musica non la sopporto, che sia classica, rinascimentale, barocca, contemporanea, dodecafonica atonale seriale spettrale non fa differenza, e non lo so il motivo, non la capisco, non mi entra nella testa, non è per me, che sia un’orchestra o un pianoforte solo, provo uno strazio di cui a volte mi vergogno ma che è puntuale al gesto del direttore d’orchestra che inizia a muovere la sua bacchetta, parte la musica e parte l’incantesimo contro di me, obbligato alla poltrona ad essere trafitto da ogni movimento d’arco o fiato emesso, come se ogni musicista fosse d’accordo sulla mia punizione, come un plotone d’esecuzione. E poi arriva anche Sergio, uno degli ultimi amici che mi è rimasto, sempre in ritardo, con l’aria trafelata di chi ha appena fatto chissà cosa, comunque molto più importante di un appuntamento o di una serata fuori, ti può spingere ad un disprezzo tale da volerlo morto, si butta sopra il suo posto e mi abbraccia con uno slancio che mi infastidisce all’istante, poi saluta Lei dandomi una gomitata sul costato e strusciando i suoi capelli che sanno di fumo contro la mia faccia. Non resisto, mi alzo e dico di dover andare in bagno, non chiedo neanche scusa a quelli che faccio alzare per uscire dalla mia fila, ma poi non mi dirigo dove ho detto, esco dal teatro, non mi importa che stia piovendo ancora più forte di quando siamo entrati, comincio a camminare come se fossi sicuro della mia destinazione e invece vado a casaccio, giro per vicoli che non conosco e metto i piedi ormai fradici in ogni pozzanghera che incontro, sento di essere ormai zuppo dalla testa ai piedi e trovo finalmente un bar in cui entrare. L’ingresso è da straniero che irrompe nel saloon in una notte da lupi, senza però spolverino fradicio e soprattutto senza pistole e cinturone, ad aver paura e imbarazzo sono io, pure se nel locale sono praticamente solo. C’è il barista, c’è un televisore accesso alla sua destra in alto e ci sono due clienti, vecchi, che guardano una partita di calcio, finalmente qualcosa che mi piace. Chiedo se fanno anche da mangiare, l’uomo dietro al bancone fa un cenno con la testa verso le pizzette e i panini esposti. Mi dice che sono freddi, dico che non importa, che me ne dia un paio, tonno e pomodori, e prosciutto e mozzarella, e poi una birra. La birra me la devo prendere da solo mi dice, la macchinetta che la mesce non funziona, mi dà l’apribottiglie e mi indica il frigo che sta affianco all’entrata. La prendo e pago, mi siedo al tavolo accanto a quello dei due vecchi, dopo cinque minuti che mastico capisco che è un’altra partita del cazzo di questo campionato di merda, piacevolmente sorpreso di questi miei pensieri volgari, sono in ottima compagnia tra l’altro, uno dei due vecchietti ripete a ogni fischio dell’arbitro: “’sto cornuto!”, l’altro invece sta zitto, ma riesco a sentire ugualmente un fischio, un sibilo, qualcosa che gli esce dalla bocca, qualcosa che lo rende pietoso e inutile. Poi di birre me ne scolo altre quattro, tutte prima che la partita finisca, e mi rimetto in strada con le idee confuse e un’ansia mista al rigurgito della cena. Quando sono a casa, La trovo addormentata in salotto, in una posizione sicuramente scomoda mezza distesa sul divano, con una coperta che le è già scivolata via e le lascia le gambe a prendere freddo. Mi avvicino e il suo trucco, sempre leggero, è chiaramente colato lungo le guance attraverso le sue lacrime, io mi siedo per terra, appoggio la mia testa un poco sotto la sua, mi sento un verme, adesso sono io a piangere e a macchiare la pelle del divano con le mie lacrime indegne, false, escono per inerzia, scacciate dal mio corpo che vuole restare vuoto, assente.
Non mi ritrovo in questo, non cerco spiegazioni e non voglio spiegarmelo, il mio gesto non ha bisogno di nessuno, di niente. Quello che mi resta da fare è andarmene perché sono questo, ho esaurito le riserve di energia, o le ho smarrite, non importa, e non sto cercando neanche altro, non sto andando in cerca del mistero, dell’autentico o dell’aldilà, mi rimane solo un’idea di futuro ed è quella di finirla al più presto, da solo e senza possibilità di essere trovato, di essere disturbato, sento quest’estraneità sulla pelle, mi sento di troppo. E certo che la mia solitudine è straziante e mi appassisco e sono pieno di dubbi, chi è che se ne va con il sorriso in faccia? Ma non è solo avendo a che fare con dei fallimenti che si perde la voglia di vivere, che siano fallimenti materiali o dettati dalla vergogna, dalla mancanza di autostima, da una fragilità interiore che vediamo fare a pezzi dagli sguardi degli altri, anche se nessuno ci ha mai rimproverato di non essere adeguati, non è solo da questo che nasce un’idea del genere. E non nasce all’improvviso, non lo ritrovo il momento che mi ha guastato, il fatto che mi ha spinto verso un’altra direzione.
Sono in un treno, il vagone che mi ospita è vuoto, mi assomiglia, ha una parte viva all’interno eppure non conta. L’incedere del treno è lento, pare che stia salendo, dai finestrini scorgo un immenso bianco disturbato dai tralicci dell’elettricità e da qualche volo isolato d’uccello. Allora mi spingo meglio fino a schiacciare il viso contro il vetro per cercare un particolare, uno qualsiasi su cui fissare lo sguardo, approfittare di questa lentezza per ritrovare un tratto familiare, una testimonianza d’umanità, una costruzione abbandonata. Adesso che sono abbastanza lontano da tutto, adesso che avverto uno spazio rassicurante posso accettare la nostalgia di ieri, sono sicuro che quando scenderò da qui le gambe non mi cederanno.
Così avanzo, senza perdere tempo, muovo i miei passi in un ambiente inaspettatamente calmo, la neve mi ostacola ma non mi trattiene, sono stanco e sbuffo, così poco abituato a muovermi all’aperto da non ricordarmi l’ultima uscita, ed è l’unico rimpianto, che mi sono sempre mosso poco, il meno possibile, ho sempre preferito un qualsiasi mezzo di trasporto alle mie gambe, però avanzo. Alzo lo sguardo per controllare la via, ma è inutile in effetti, non c’è nulla contro cui andare a sbattere e la strada non finisce, mi asciugo il sudore che ho sulla fronte e finisco per perdere l’equilibrio di fronte a tale vastità, colori indefiniti, tra il bianco e il grigio; la fatica aumenta, il suono prodotto dal mio incedere e il cuore che si ostina ad aumentare la sua corsa, ho dolore alle orecchie e in bocca avverto uno sgradevole sapore di sangue, i miei denti adesso sono di troppo. Il livello della neve è aumentato e non me ne sono accorto, ormai sprofondo quasi fino alla vita, mi posso fermare, mi lascio cadere in avanti e affondo le braccia e la testa, urlo per il ghiaccio che passa attraverso i miei abiti lungo il collo e la schiena, urlo dapprima mentre sono ancora immerso e poi urlo al cielo, urlo fino a che la gola non chiede riposo. Respiro e piango, ansimo per tutto, la fatica e il dolore, cos’è che mi lascio dietro? Quanti pensieri che s’azzuffano, ognuno a reclamare attenzione, ma sono troppe le cose che uno abbandona, sono così tante che le lacrime non bastano a piangerle tutte, e poi infine le persone a me care, quanto sangue dovrebbe uscirmi adesso, quanta neve dovrei macchiare per provare ciò che sto perdendo, e non lo voglio ammettere, e non lo avrei ammesso di fronte a nessuno, ma mi mancano, non lo sa nessuno, non lo può sapere questa neve, non lo potrà diffondere questo vento che mi schiaffeggia, è tale la distanza che le mie urla adesso non arrivano più da nessuna parte, la mia voce ha perso ogni suo senso, è sola con me a rispondermi e a urlarmi contro. La distanza è pari alla misura che era colma, ma se le metto a confronto non c’è dubbio che la prima fa più male, dalla prima non guarirò più e adesso me accorgo, ho ancora tempo per pensarci e per far crescere la disperazione, mi rimane tempo spero per impazzire, per dare sfogo a questo lamento che sta salendo, il mio spirito devastato in preda all’isteria e le mie membra congelate, che si preparano all’assideramento, finalmente alla mia morte, avverto il contatto tra la mia pelle e il mondo, tolgo ogni oggetto inutile, ogni vestito che mi separa dal resto e mi preparo. Non sono in grado di andare oltre, mentre tremo non mi viene più nulla, quand’è che finisce? Quanto manca, quanti istanti di sofferenza mi separano dall’andare a fondo, dal poggiarmi a terra ricoperto di neve nel mio letto nuovo, calmo e immobile, immenso e tutto per me, disponibile ad accarezzarmi, a farmi sentire protetto e in salvo, a casa.
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