Interessanti i risultati, abbastanza prevedibili, di un recente studio pubblicati sulla rivista Psychological Science il quale ha rilevato che i residenti dei Paesi più poveri possono sperimentare meno soddisfazione di vita rispetto alle persone che vivono in nazioni più ricche, ma spesso sperimentano un maggiore significato della vita.
In particolare hanno osservato che i dati, suggeriscono che la religiosità può svolgere un ruolo importante: gli abitanti di nazioni più ricche, dove la religiosità è più bassa, riportano, ad esempio, un tasso di suicidio più elevato rispetto ai paesi più poveri. Questo, inoltre, appare è in contraddizione anche con le dichiarazioni che la loro vita sia soddisfacente.
Un secondo studio, presentato nei giorni scorsi all’Annual Conference of the British Psychological Society’s Division of Occupational Psychology’s a Brighton, ha suggerito a sua volta i lavoratori dipendenti con alti livelli di religiosità vivono meglio (riferiscono bassi livelli di ansia, depressione e stanchezza) e sono più propensi a riferire che le loro vite hanno un significato.
Un terzo studio è stato pubblicato su JAMA Psychiatry e ha rilevato come l’ispessimento della corteccia cerebrale è associato alla regolare pratica religiosa, che potrebbe poi condurre ad un minor rischio di depressione. I ricercatori hanno concluso rilevando «gli enormi benefici protettivi della spiritualità e della religione» nei confronti della depressione.
Tre studi in più, dunque, che confermano la già ampia letteratura a nostra disposizione che evidenzia il rapporto estremamente positivo tra fede, benessere psico-fisico e significato della vita. Le obiezioni tuttavia non mancano: al primo studio alcuni obietteranno che la religione si sviluppa maggiormente in circostanze di difficoltà sociale e povertà. Al secondo e terzo studio si obietterà che la fede serve proprio come stampella dell’uomo a sostenere le prove della vita, per cui è un’invenzione umana.
Rispetto alla prima obiezione, il fatto che le nazioni più ricche siano anche le meno religiose (come mai allora negli Usa il 92% crede in Dio e in Repubblica Ceca è l’opposto?), lo abbiamo già visto, è stato spiegato da Gesù Cristo in persona: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio» (Mc 10, 17-30). Ovvero, il disagio economico/sociale è un forte stimolo per pensare allo scopo della propria vita, prendere coscienza della propria impotenza umana avvicina a Dio perché aiuta a vivere in semplicità d’animo (secondo l’ammonimento evangelico), in gratitudine per quello che si ha e che non è scontato avere. Al contrario, il ricco o il benestante sarà più tentato di crogiolarsi nell’illusione di essere “a posto”, di non avere bisogno di null’altro o di nessun Altro. La povertà e la moderazione, materiale e spirituale, è un forte antidoto all’illusione, non a caso è uno dei messaggi chiave del pontificato di Papa Francesco.
Rispetto alla seconda obiezione, già affrontata, si scambia erroneamente la causa con uno degli effetti. Anche acquistare un’auto nuova aiuta il morale, aumenta il grado di soddisfazione della vita, rende più felici. Ma chi è disposto a credere che si acquistino auto nuove per questo motivo? Allo stesso modo anche la fede in Dio aiuta il benessere psico-fisico, ma è solo una delle tante conseguenze della fede e nemmeno in questo caso -come in quello dell’acquisto dell’auto nuova-, si è autorizzati ad affermare che invece la fede è un’invenzione umana nata dalla paura verso la morte. Come affermato da Simone Weil, «la religione in quanto fonte di consolazione è un ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione» (Quaderni II, 1940/42, postumo, 1953). L’inguaribile bisogno religioso dell’uomo indica molto più probabilmente un vuoto divinamente posto che solo Dio può colmare, è uno stimolo continuo a non perderLo di vista. «Tu ci hai fatti per te, o Dio, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te» (Sant’Agostino). E’ doveroso trasformare il contenuto di quest’obiezione in una prova a favore di Dio.
Per approfondire questo e altro consigliamo quest’articolo di Paul Copan, docente di Filosofia ed Etica alla Palm Beach Atlantic University.
La redazione