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Le qualità di un buon dialogo

Da Marcofre

Spesso si ritiene che un buon dialogo, debba essere verosimile; possiamo fermarci qui? Forse; si tratta però del minimo sindacale. Potremmo già accontentarci perché questa qualità alza di una spanna buona un qualunque testo. Tuttavia è necessario puntare più in alto.
Oltre alla verosimiglianza, ci deve essere qualcosa di diverso.

Il classico esempio: se parlano marito e moglie, non è verosimile che uno, rivolgendosi all’altro (o all’altra) ne indichi il nome, l’età, il lavoro.

 

“Roberto”, disse, “tu fai l’operaio alla Fiat a 1000 Euro al mese, e hai 34 anni. Come possiamo andare avanti?”

 

In effetti, non lo so neppure io come si possa andare avanti a leggere una roba del genere. Siamo alle prese col classico caso dell’autore che scambia il dialogo per un mezzo furbo, da usare per fornire informazioni al lettore. Che poi esistano lettori in grado di apprezzare questo modo di scrivere, non ho alcun dubbio al riguardo.

È un errore: punto.
Prima di tutto, la verosimiglianza. E in seguito, cosa ci deve essere? L’interesse. Il lettore, come chi scrive, deve scoprire qualcosa del personaggio.

 

Tu credi che quando arriverai in California in un certo senso ricomincerai daccapo.

Quella è la mia intenzione.

Ecco, secondo me è proprio questo il punto. C’è una strada che va in California e un’altra che torna indietro dalla California. Ma il modo migliore per andarci sarebbe semplicemente ritrovarsi lì.

Ritrovarsi lì

Sì.

Cioè, senza sapere come ci si è arrivati?

Sì, senza sapere come ci si è arrivati.

Non so come sarebbe possibile.

Non lo so neanch’io. È questo il punto.

 

Questo è un brano tratto da “Non è un paese per vecchi” di Cormac McCarthy. Cosa abbiamo qui? Verosimiglianza, direi. C’è anche ripetizione, ma questo non appesantisce il dialogo, lo rende solo più convincente. L’interesse sta in quello che uno dei due personaggi afferma. Ci sono un miliardo di modi per parlare della California, ma per questa storia, per questo momento all’interno della storia, probabilmente l’unico buono è questo.

Il lettore resta irretito da questo dialogo poiché lo trova “bizzarro”? Di sicuro non è quello che ci si attende. Le battute sono veloci, si è portati a proseguire per sapere come va a finire, quale sarà la battuta seguente. Forse risolutiva, forse no.

Sono quasi certo che McCarthy mentre scriveva questo dialogo non sapeva nulla. Non poteva conoscere la battuta seguente, lui stesso era a caccia di qualcosa, un senso, un significato. Che si svelava davanti a lui mentre batteva i tasti della sua Olivetti. E noi come lui e assieme a lui, siamo alla ricerca.

Se un dialogo non sorprende chi scrive, non c’è un problema solo nella storia. Anche chi scrive forse ha le idee confuse.

 


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