Le riflessioni sul cinema, a partire dal 1895 sino ad oggi, hanno impegnato gran parte dei critici e registi, e tutt’oggi, a distanza di ben più di un secolo dalla sua nascita, accostarsi a questo dibattito è un’impresa che si rivela piuttosto ostica.
Nel precedente articolo abbiamo preso a prestito due espressioni chiave riguardo al cinema, in cui il concetto fondamentale è quello dell’occhio, della visione: cinema come dispositivo ottico in grado di catturare la realtà e di restituirla a volte nella sua essenza, altre volte modificata. Potremmo definirlo per antonomasia immagini in movimento, medium, industria (quella cinematografica), disciplina, intrattenimento, arte, esperienza filosofica, ma queste sono solo delle caratteristiche, degli orpelli che ne decorano la natura. Per questo preferisco porre l’accento ora su due definizioni che, in qualche modo, sono parallele o meglio inscindibili: l’idea del cinema come occhio e di linguaggio universale.
Occhio perché proprio come quest’organo è in grado di catturare la realtà che ci circonda. B. Balàzs affermava chiaramente che il cinema ripristina la visibilità dell’uomo, restituendo la realtà allo sguardo (dopo secoli in cui era la parola a dominare la comunicazione umana), ma anche J. Epstein, A. Gance, D. Vertov, in quell’epoca in cui si discuteva animatamente sulle specificità cinematografiche, insistevano sul senso della vista, ripristinato e valorizzato dalla cinepresa.
Linguaggio universale poiché nella settima arte convergono vari codici e forme espressive pertinenti ad altri tipi di linguaggio: la parola, l’immagine, la musica, ed il cinema (un certo cinema) ha saputo coglierne le caratteristiche costruendo un modo di comunicare tutto suo. Sommariamente, dalla fotografia (suo parente più prossimo) e dalla pittura ne fa derivare la componente visiva, dal teatro e dalla letteratura narrativa ne trae la forza rappresentativa e la capacità del raccontare (anche attraverso l’ausilio della vocalità e della parola), dalla poesia ne conquista la potenza della metafora e del simbolo mentre la musica va a modificare o rendere più intensa la realtà rappresentata.
Sia chiaro che i riferimenti fatti non definiscono l’oggetto, bensì sono ingredienti, matasse che vengono assorbite, trasformate e utilizzate per rendere omaggio a se stesso e al mondo, poiché, come afferma R. Bresson:
Niente di più inelegante di un’arte concepita attraverso le forme e i modi di un’altra.
Ma il cinema, di questa sua natura, non sempre si ricorda, ed ecco ad esempio che ci ritroviamo ad assistere a dei film, che con il cinema, quello vero, hanno poco a che fare. Richiamare la specificità del linguaggio cinematografico significa fare un seppur celere occhiolino al grande semiologo francese C. Metz che a metà degli anni ’60 inizia ad interrogarsi con Le cinéma, langue o langage? sulla natura e sulla specificità del medium e della sua comparazione con altri sistemi di espressione codificando una vera e propria grammatica cinematografica, ma che tuttavia sembra esser applicabile solo al cinema narrativo e con esclusione della colonna sonora (componente addirittura fondamentale in alcune opere).
Purtroppo l’idea dominante è quella che il film sia un oggetto di immediata comprensione (per questo tutti si apprestano ad elargire commenti, opinioni, giudizi, consigli), ma dovremmo fuggire da questo luogo comune perché ci impedisce di cogliere un determinato prodotto a 360° e, come per tutte le cose, fermarsi all’apparenza significa accontentarsi della prima stazione di un viaggio che potrebbe essere infinito.
La lettura, l’interpretazione dei codici cinematografici è quindi assolutamente essenziale per comprendere il messaggio filmico, altrimenti con un atteggiamento di scarsa curiosità e faciloneria rischieremmo di confondere anche la celebre Fontana di Duchamp con un banale orinatoio di ceramica!
Valentina Maniezzo