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«Le rivoluzioni nascono a marzo»

Creato il 30 marzo 2011 da Alphaville

Mi dicono che giri in rete uno scritto dal titolo pressoché identico — Le rivoluzioni nascono di marzo.

“Le rivoluzioni nascono a marzo”, invece, è il sottotitolo di un pezzo che scrissi per il n. 246 della rivista “Orion” nel marzo 2005: Il Diciannove. Formidabile quell’anno – ovvero le rivoluzioni nascono a marzo. Lo riporto pressoché integralmente qui sotto, sottoscrivendolo di nuovo, e dedicandolo a E.G.: il quale molto tempo fa mi confermò che ero (e sono) sulla strada giusta, e non da sola.

Il Diciannove
Formidabile quell’anno
ovvero le rivoluzioni nascono a marzo

Il cybernauta che in una notte buia e tempestosa si trovasse a navigare nel Mar della Rete alla ricerca del termine “socializzazione” difficilmente troverebbe qualcosa di diverso dall’accezione sociologica del medesimo.
Ovvero: «Il processo durante il quale un individuo impara a diventare membro della società viene chiamato socializzazione [ed] è l’imposizione di modelli sociali sul comportamento [tali da interferire] addirittura con i processi fisiologici dell’organismo. Ne consegue che nella biografia dell’individuo la socializzazione [...] è un fatto tremendamente importante»[1].
Anche se riferita a un meccanismo squisitamente sociologico, la citazione riportata contiene ugualmente un’affermazione che mi sento di recuperare per applicarla paro paro a un’altra accezione del termine: «la socializzazione è un fatto tremendamente importante». Altroché, se lo è. Quella sociologica senza dubbio, ma segnatamente quella economica, e in sommo grado.
E se è vero che a noi — figli estenuati di generazioni costrette a scannarsi da sole senza neppure il conforto della sontuosità di un suicidio rituale — la paroletta in questione è vagamente familiare per via di quei pochi mesi a conclusione di un famoso ventennio trascorso ma non passato, non è meno vero che la paroletta stessa aleggia da tempo nell’immaginario (ahimè non troppo collettivo) critico anticapitalista.

Storia vecchia…

Senza farla troppo lunga — ché rischieremmo di risalire indietro per li rami fino alle jacqueries del sec. XIV e su su alle guerre sociali in Grecia e a Roma, e non è il caso — diciamo soltanto questo: è all’inizio del sec. XIX, col rafforzarsi della borghesia, l’avvento della rivoluzione industriale e lo sviluppo del movimento operaio, che prende corpo un insieme di teorie e azioni politiche volte a sostenere un sistema economico-politico basato sulla socializzazione dei fattori produttivi e sul controllo statale, parziale o completo, dei settori economici, così da far prevalere gli interessi collettivi su quelli individuali (perdonate l’aridità dell’esposizione, ma è nella natura delle definizioni).
Più nel dettaglio, e che piaccia o no, è alla strana coppia Marx/Engels che si deve la teoria sociale denominata dagli stessi “socialismo scientifico”, il cui programma politico prevede per l’appunto la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio.
Da questo momento in poi, la socializzazione (e basta, per brevità) diviene il pensiero dominante di quanti, in Russia, in Europa e perfino negli United States allora — ohibò! — ribollenti di idee si battono con pensieri parole ed opere per emancipare operai e contadini da una trista condizione di schiavitù strisciante.
Il punto di crisi (non ultimo né definitivo, è chiaro) si fissa in un sabato di marzo del 1871, quando «all’alba [...] Parigi fu svegliata da un colpo di tuono: “Vive la Commune!”. Che cos’è la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei borghesi?»[2].
La Comune… la Comune è un’idea, un sogno, un’utopia — se vogliamo restare sul vago (nei due sensi del termine) e sull’onirico: categorie che sempre i benpensanti affibbiano, e spesso e volentieri, alle levità intellettuali dei visionari impenitenti d’ogni secolo. Più pragmaticamente, accettiamo l’assunto per cui «L’imperialismo è la più prostituita e insieme l’ultima forma di quel potere statale che la nascente società della classe media aveva incominciato ad elaborare come strumento della propria emancipazione dal feudalesimo, e che la società borghese in piena maturità aveva alla fine trasformato in strumento per l’asservimento del lavoro al capitale»[3], e scopriremo che «La Comune fu l’antitesi diretta dell’impero. Il grido di “repubblica sociale”, col quale il proletariato di Parigi aveva iniziato la rivoluzione di febbraio, non esprimeva che una vaga aspirazione a una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso dominio di classe. La Comune fu la forma positiva di questa repubblica»[4]. Due cose: una è che la “rivoluzione di febbraio” cui si fa cenno è quella del 1848, annegata nel sangue degli operai parigini. L’altra è che avete letto bene: “repubblica sociale” — e ho detto tutto, chioserebbe il Principe.
Questa, dunque, è la Comune. E che cosa voleva, massimamente? Voleva nientepopodimeno che «abolire la proprietà, la base di ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato»[5]. Tutto qui. Tutto…
Com’è finita la Comune di Parigi lo sappiamo.
Eppure, nonostante la repressione, i morti sui boulevards e le deportazioni, l’ultimo terzo del sec. XIX e i primi anni del rutilante Novecento che avanza sono ancora costellati di lotte, proclami, rivendicazioni, scontri, violenze di piazza e giudiziarie (e non chiedetemi cos’è peggio…): si replica dovunque, a soggetto e a furor di popolo — la cosiddetta belle époque conosce il 1877 nel Matese, il 1886 a Chicago, il 1891 a Roma, il 1892 a Jerez de la Frontera, il 1894 in Sicilia, il 1898 a Milano, il 1905 in Russia, il 1908 ancora a Roma, il 1909 in Spagna, il 1910 a Londra, il 1911 in Giappone (addirittura!), il 1914 ad Ancona… Finché la prima guerra moderna — di mezzi, ma di esiti antichi — si porta via tutto.

… nuove idee

Nell’arco di cinque anni (quattro per l’Italia, che ne perde uno traccheggiando senza sapere bene da che parte stare [6] — si vede che le viene proprio naturale), il molto sangue versato è trasversale oltre che internazionale: nel fango delle trincee e fra i crateri delle bombe, sui campi devastati e sulle vette violate, fra cadaveri di uomini e animali ammassati insieme in un apocalittico dissacrato macello a cielo aperto, si trovano fianco a fianco lavoratori del braccio e della mente, operai e borghesi, contadini e aristocratici. Si scopre un altro mondo, un’altra dimensione in cui sotto il piombo nemico è possibile, anzi facile, superare pregiudizi e convenzioni d’anteguerra [7] per riconoscersi profondamente uguali sotto il grigioverde e infinitamente diversi dai civili incravattati in uffici e dì di festa rimasti a casa.
Quella casa che nel 1918, quando i vivi ci faranno ritorno, risulterà così estranea, così scomoda, così fredda che saranno in molti a fuggirne per riversarsi nelle strade — ad ascoltare le parole di ferro e di fuoco che altri vivi senza divisa levano alte, in una chiamata alle armi non più militarista ma sociale, per un mondo più giusto — eterna meravigliosa utopia, motore immobile, sale della terra: accade così nella Russia non più zarista (che ha aperto la strada con la Rivoluzione del 1917), e così nella Germania weimariana prossima ventura, e così nell’Italia che tutti giurano rossa.

L’air du temps

O Zeitgeist, se preferite — il concetto è identico, e allude a un sentire comune e diffuso che permea di sé un certo periodo storico, travalicando frontiere geografiche e ideologiche.
Ma quando si parla di tempo, dal 1905 o giù di lì non si può fare a meno di pensare alla relatività: io, almeno, non posso. Mi viene in mente subito quell’equazione E=mc2 (segni alfanumerici così ricorrenti nel mio vissuto) — dove “E” sta per energia, “m” per massa e “c” per velocità, a significare che «l’energia è uguale alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce» (nelle parole dello stesso Einstein, nato anche lui a marzo — il 14, per la precisione). E in un gioco a ruota libera di libere associazioni (che Freud mi assolva…) mi viene da leggere diversamente la formuletta grandissima di A.E.:

Eventi = masse x cognizioni2

Ovvero gli eventi si producono grazie alla concomitanza/interazione, in un punto spaziotemporale dato, di masse umane e cognizioni — queste ultime moltiplicate per se stesse, a livello di individuo e di società, di luoghi e di temperie, a farsi conoscenze cioè sapere…
Perché sapere è potere, non ce lo sCORdiamo: non lo lasciamo fuori dal cuore, insomma.
E nel 1919 di eventi se ne producono, altroché…

La Rosa rossa

Il 1918 si è chiuso con la fine della guerra: otto milioni di morti sparsi qua e là per l’Europa, “fresche bocche sorridenti” (E. Pound) andate incontro alla morte, adolescenti “dimentichi dei corpi di donna ma lanciati all’assalto sui campi di battaglia come su corpi di donna” (E. Jünger), Imperi crollati, nuovi assetti mondiali in fieri. Il mondo spera, o si illude — il che è poi lo stesso — di poter tirare
un sospiro di sollievo, ma il 1919 non si apre mica tanto bene: a Berlino, per esempio, il 4 gennaio ha inizio la “settimana di sangue”, a conclusione di una crisi iniziata nel dicembre 1918 con la scissione del movimento operaio tedesco e la fondazione del nuovo Partito Comunista Tedesco, di cui entra a far parte anche lo Spartakusbund, Lega di Spartaco, nata nel 1916 da una costola del partito socialdemocratico tedesco per volontà di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Dunque nel gennaio del 1919 il governo rimuove il questore di Berlino, giudicato pericolosamente simpatizzante per i comunisti: i quali prevedibilmente scendono in piazza. Rosa L. non riesce a trattenere i dirigenti del partito dall’appoggiare la rivolta, che si sta rivelando inequivocabilmente male organizzata, peggio gestita e destinata a concludersi di fatto in un sanguinoso fallimento: pur non condividendola e consapevole dei rischi che corre, Rosa (già ripetutamente ospite delle patrie galere) resta a Berlino — del resto, lei ama dire che «la libertà è sempre soltanto libertà di chi la pensa diversamente».
L’insurrezione si conclude il 14 gennaio: la sede del partito comunista viene espugnata dalla polizia e parecchi esponenti comunisti sono arrestati e fucilati per direttissima. Rosa al momento viene risparmiata, e lo stesso 14 gennaio, nel suo ultimo articolo intitolato «L’ordine regna a Berlino», scrive: «Da questa sconfitta fiorirà la futura vittoria. “L’ordine regna a Berlino”! Stupidi assassini! Il vostro ordine è costruito sulla sabbia. Già domani la rivoluzione si rimetterà in piedi e con un suono di tromba annuncerà, con vostro profondo orrore: “Ero, sono, sarò!”».
Il 15 gennaio Rosa Luxemburg viene arrestata insieme al segretario del partito Karl Liebknecht; alle nove di sera del 15, durante il viaggio di trasferimento in carcere, Rosa viene colpita alla testa col calcio di un fucile, poi finita con una revolverata; il suo cadavere viene gettato nel Landwehrkanal di Berlino, dal quale sarà ripescato soltanto il 31 maggio (con lei muore anche Karl Liebknecht). Nei mesi turbolenti in cui il suo corpo sembrava letteralmente svanito nel nulla, Bertolt Brecht fa circolare l’«Epitaffio 1919»:

Ora è sparita anche la Rosa rossa,
non si sa dov’è sepolta.
Siccome ai poveri ha detto la verità,
I ricchi l’hanno spedita nell’aldilà.

Rosa Luxemburg aveva 48 anni: era nata il 5 marzo (!) 1871 da una famiglia di ebrei non ortodossi, si era messa nei guai con le autorità fin da studentessa, ed era terribilmente lucida. Nel suo fondamentale testo su L’accumulazione del capitale (1912), che la vede entrare in aperta polemica col marxismo ortodosso, R.L. sostiene che l’accumulazione del capitale si determina soltanto in virtù degli scambi ineguali attuati dai paesi capitalisti con i paesi meno sviluppati.
Quindi a determinare la ricchezza delle grandi potenze europee sarebbero l’imperialismo, il dominio politico e lo sfruttamento economico dei paesi più poveri. Ma la lungimirante signora profetizza che il capitale, il quale per svilupparsi deve necessariamente sfruttare i paesi del Terzo Mondo, ovvero agire in ambito non capitalistico, finirà per esaurire prima o poi le proprie possibilità d’espansione, andando inevitabilmente incontro all’autodistruzione.
E fra le accuse principali che la scomoda Rosa rossa imputava ai socialisti riformisti spicca l’abbandono dell’ideale socialista originario — la speranza di edificare, un giorno, una società basata sulla socializzazione dei mezzi di produzione…

Da Mosca a Milano, primavera rossonera

Il calcio è cosa serissima, ma qui vorrei trattare d’altro, se permettete. Per esempio della Terza Internazionale, che tiene a Mosca il suo primo Congresso nel marzo del 1919, e che titola testualmente il punto III. della “Piattaforma” «L’espropriazione della borghesia e la socializzazione dei mezzi di produzione», così argomentando:
«[...] Il tenore di vita degli operai può essere elevato soltanto quando il proletariato stesso — e non la borghesia — governa la produzione. [...] la dittatura proletaria deve attuare l’espropriazione della grande borghesia e della feudalità e far sì che i mezzi di produzione e di scambio divengano proprietà collettiva dello Stato proletario. [...] La dittatura proletaria non comporta assolutamente alcuna divisione dei mezzi di produzione e di scambio; viceversa il suo scopo consiste nell’organizzare la produzione nel quadro di un piano unitario.
«I primi passi verso la socializzazione di tutta l’economia esigono: la socializzazione del complesso delle grandi banche, che attualmente dirigono la produzione; la presa di possesso da parte del potere proletario di tutti gli organi dello Stato capitalistico che presiedono alla vita economica; la presa di possesso di tutte le aziende municipalizzate; la socializzazione dei settori produttivi monopolistici e uniti in trust e la socializzazione di tutti quei rami dell’industria il cui livello di concentrazione e centralizzazione del capitale lo rende tecnicamente possibile; la socializzazione delle propreità agrarie e la loro trasformazione in aziende agricole dirette dalla società.
«Per quanto riguarda le aziende di minori dimensioni, il proletariato deve socializzarle gradatamente, a seconda della loro importanza.
«È necessario far rilevare, a questo punto, che la piccola proprietà non sarà affatto espropriata e che i proprietari che non sfruttano l’altrui lavoro non devono essere assoggettati ad alcuna misura coercitiva. Questo ceto sarà gradatamente attratto nell’organizzazione socialista dall’esempio e dalla pratica che dimostrano la superiorità del nuovo ordine, ordine che libererà la classe dei piccoli contadini e la piccola borghesia cittadina dalla pressione economica del capitale usuraio e della nobiltà, dai gravami delle imposte (principalmente con l’annullamento dei debiti di Stato ecc.). [...] La dittatura proletaria sostituirà alla separazione del lavoro fisico e intellettuale, generata dal capitalismo, la collaborazione di entrambi, realizzando così l’unione del lavoro e della scienza»
.
E a questo proposito permettetemi un rilievo personalissimo: assodato che i comunisti non mangiano i bambini — almeno non più di quanto facciano i restanti fondamentalisti d’ogni razza e colore —, non si vede in cosa la dittatura del proletariato dovrebbe essere peggiore di quella del capitale, la quale ultima già sperimentiamo tutti e in vivo sulla nostra pelle da parecchio tempo, se non vado errata…
Misteri ingloriosi della civiltà (?) occidentale…
Ma spostiamoci nella Mitteleuropa, e vediamo che succede, sempre a marzo, nella capitale morale dell’Italia unita ancora, ahilei, monarchica e sabauda (piove sul bagnato, eh?) — Milano, dico. Dove in piazza San Sepolcro, il 23 marzo 1919, a primavera appena iniziata, comincia una nuova stagione per la politica italiana, si crede allora — per la Storia, sappiamo noi. In quella data, com’è noto, un manipolo di audaci capeggiati da un Benito Mussolini mai (a mio avviso) così in forma diede vita ai Fasci di Combattimento, anticamera di quel fascismo i cui vapori sulfurei ancora mozzano il respiro a certi asmatici del pensiero da un capo all’altro dell’arco costituzionalmente costituito. E forse non tutti sanno che nell’occasione l’oratore più applaudito fu Filippo Tommaso Marinetti, che un anno più tardi, in occasione del primo congresso fascista (maggio 1920) si dimetterà con un discorso lungimirante, forse appena un po’ meno applaudito ma altrettanto dirompente [8].
Restiamo nella Milano del ’19, e leggiamo dal programma («di un movimento sanamente italiano» e «rivoluzionario perché antidogmatico e antidemagogico, fortemente innovatore perché antipregiudiziaiolo») che i Fasci appena fondati si propongono di applicare:

«[...] Per il problema sociale:
«Noi vogliamo [...]
c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria.
d) L’affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici. [...]»
.

È chiaro, no? E non c’è altro…

Appendice (per non concludere)
Ancora nel 1919, il 1° maggio, Antonio Gramsci fonda il quotidiano “L’Ordine Nuovo”, che si propone di lanciare un programma di rinnovamento sociale e proletario attraverso la creazione di Consigli di fabbrica (l’espressione traduce la parola russa “soviet”, molto semplicemente), nei quali l’operaio «entra a far parte come produttore, in conseguenza cioè di un suo carattere universale, in conseguenza della sua posizione e della sua funzione nella società».
In un sussulto di geometrie non euclidee, a me viene in mente il nastro di Moebius…

NOTE

[1] P.L. Berger – B. Berger, Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, il Mulino 1977, pp. 72-73. Un classico.

[2] Karl Marx, La guerra civile in Francia, Editori Riuniti 1990, p. 31.

[3] Ivi, p. 35.

[4] Ibidem.

[5] Ivi, pp. 41-42.

[6] Com’è noto, l’Italia pensò bene di pugnalare alle spalle la Triplice Alleanza — il patto militare a carattere difensivo firmato il 20 maggio 1882 a Vienna con Austria-Ungheria e Germania — per vendersi alla Triplice Intesa (Francia, Inghilterra, Russia): il 26 aprile 1915, infatti, il governo italiano firmò segretamente a Londra, all’insaputa del Parlamento, un patto in cui si garantiva l’entrata in guerra dell’Italia contro Germania e Austria-Ungheria. È per questo motivo che un anno dopo, il 14 maggio 1916, l’esercito austriaco avrebbe dato inizio alla famosa Strafexpedition (spedizione punitiva) contro l’ex alleato italiano accusato, a ragione, di tradimento.

[7] Il 17 maggio 1915 gli operai torinesi scendono in piazza e indicono uno sciopero generale per protestare contro l’imminente entrata in guerra dell’Italia: scoppiano gli inevitabili disordini, ai quali partecipano non soltanto dimostranti e forze dell’ordine, ma anche borghesi inopportunamente infiammati di amor patrio — come un tal avvocato Sabino Camerano, che un anno dopo (18 maggio 1916) sarà insignito della Medaglia d’oro al valor civile con la seguente motivazione: «Durante un serio tumulto si slanciava coraggiosamente, su di un rivoltoso, che con un lungo coltello, tentava di aggredire alle spalle un ufficiale dei Cavalleggeri in servizio, e atterratolo lo immobilizzava al suolo, riportando due gravi ferite di arma da fuoco, sparategli da altri dimostranti e salvandosi da peggiori conseguenze per il pronto accorrere di alcuni carabinieri. – Torino, 17 maggio 1915».

[8] Così lo stesso Marinetti riassume nei Taccuini il suo discorso: «Con forza e slancio insisto sulla necessità di dosare la nostra disapprovazione degli scioperi. Vi sono scioperi sacrosanti da sostenere. Parlo dei cattivi pastori e del gregge. Propongo la funzione di cane fedele intelligente che vigila quando i pastori sono ubriachi o dormono. Noi abbiamo fatto, fino ad ora, o il cane idiota che addenta le pecore o anche abbiamo sparato sui cattivi pastori ferendo involontariamente il gregge! Sono applauditissimo. Parlo poi della Repubblica da esigere e della monarchia zaino (pieno di cose inutili) da buttar via. Parlo del papato. Concludo: noi veniamo dal Carso. Ma non andremo verso la reazione». Ecco: mutatis mutandis, potrei personalissimamente sottoscriverlo al 100%, qui e ora, a 85 anni di distanza.


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