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Stefano Amato e il suo Le sirene di Rotterdam
Le sirene di Rotterdam, romanzo di esordio di Stefano Amato (Transeuropa 2009, pp.177), non è un romanzo di quelli che ti segna o che ti cambia la vita irreversibilmente, però scorre e ti tiene compagnia, specialmente se condividete con il protagonista una certa alienazione, o meglio, una certa fobia verso le persone e appartenete al club di quelli che se ne stanno volentieri murati vivi nella propria camera a leggere libri.
L’impianto narrativo è quello del viaggio dell’eroe che deve superare una serie di prove per conquistare l’oggetto del desiderio. Nel caso di Dino Crocetti, protagonista e voce narrante, l’obiettivo è scovare il padre, fuggito da Siracusa abbandonando la famiglia dieci anni prima, e segnalato da zio Augusto, lo zio di Rotterdam, per le strade della cittadina olandese. A seguito di questa segnalazione Dino parte insieme al rimanente della sua scombinata famiglia, composta oltre che da lui, ventenne animato dalla fissazione per i nomi anagrafici di tutti i personaggi famosi e desideroso di convertirsi all’ebraismo, da sua sorella Sara, vergine e cattolica fervente ma animata a sua volta dalla compulsione di effettuare test di gravidanza nell’attesa di generare un nuovo Messia, da sua madre, inventrice di strampalati oggetti come gli Occhiali per claustrofobici, capaci di far sembrare lontano ciò che è vicino o l’Invertitore di gravità e dal nonno materno, intellettuale sinistroide seguace di Bakunin, Proudhon e Max Stirner.
Anche se di solito il viaggio dell’eroe prevede prove ben più significative, mentre qui si tratta solo di superare noiosi impicci burocratici ruotanti intorno all’Associazione degli Italiani che vivono a Rotterdam, lo spunto degno di interesse è il fatto che capiti a Dino l’unico antidoto che la gente ha a propria disposizione per esorcizzare il fantasma di una persona che se n’è andata anni addietro ma con il quale si è continuato a convivere per tutti quegli anni, anche se ormai snaturato a feticcio e privato di qualsiasi appiglio alla realtà: riconfrontarsi col doppio reale del nostro feticcio a distanza di anni. E quando Dino si ritrova di fronte la versione reale di quell’uomo anticonformista, geniale, fuori dall’ordinario, che ascoltava i Ramones, amava il punk inglese e la letteratura russa, quella personalità d’eccezione che nella sua personalissima revisione rispondeva alla voce “Papà”, lo spettacolo d’insieme è risultato sufficientemente penoso affinché in un millesimo di secondo il mito cedesse il posto alla disillusione.
Più che la trama in sé ho trovato curiosa la voce del protagonista, forse in alcune considerazioni un po’ ingenua, come una specie di fratello minore di Arturo Bandini, ma perfettamente coerente con tutto il bizzarro quadretto di famiglia in cui è calato il suo proprietario; sono presenti alcune trovate meta-letterarie, come il fatto di chiamare col proprio nome di scrittore un personaggio che svolge il compito di aiutante del protagonista per il raggiungimento dell’obiettivo e accordarsi di scrivergli come sarebbe andata a finire tutta la storia puntualizzando di averlo fatto, che risultano come una sorta di ammiccamento al lettore di cui non vedo la necessità. Tuttavia il romanzo è anche costellato di osservazioni e immagini che ne tengono alta la qualità umoristica, come: Il colore del cielo di Rotterdam, quella mattina, ricordava la bigia densità della crema che si ottiene facendo bollire il riso per un migliaio di ore o giù di lì […].
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