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Le storie sono comunicazione

Da Marcofre

Che si tratti di un racconto o di un romanzo non cambia molto, quello che invece deve essere chiaro è che o si comunica, oppure no. Nel secondo caso non c’è storia, a malapena un monologo di nessun interesse.

Se si mette al centro la comunicazione (come fanno gli autori che restano: non mi stancherò mai di ribadirlo), non esiste un solo aspetto lasciato al caso, o alla superficialità. Il che non significa che sarà tutto perfetto.

Si dichiara guerra al luogo comune, al cliché, si cerca una lingua personale e corretta, e comprensibile. Lingua “alta” o “bassa” vuol dire tutto e niente.
Deve essere efficace.

Ed è tutto compito tuo, responsabilità tua, fatica tua.

Comunicare non significa scrivere solo di quello che sai, che conosci, o che ti sta a cuore perché devi “dimostrare” le tue idee e teorie. Se questi sono i tuoi scopi, meglio cambiare settore.

Da anni si è imposta questa ideologia: “Scrivete di quello che sapete”. Che mancanza di ambizione. Ma è ovvio: se insegni a osare esiste il rischio di avere qualcuno che scopre che quel manicaretto squisito è solo sbobba.

I personaggi si rispettano. Puoi non condividerne le scelte, le idee, ma se ti imponi avrai delle marionette.

Le capre che scrivono “dimostrano”.

Gli scrittori… scrivono. Stanno un passo indietro rispetto ai loro personaggi, anche due se necessario.

Comunicare però vuol dire amare la parola, quindi la storia e chi ci nuota dentro. Rispetto per il personaggio, e per la sua storia di dolore e di ricerca. Non si scrivono storie per edificare, o per demolire. Oppure per dimostrare che siamo bestie; questo ce lo ricorda ogni giorno la pubblicità, perché ribadirlo?

Comunicare è celebrare il mistero dell’essere umano che nonostante tutto va avanti, spera.


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