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Le terre dei migranti e i frutti della collina

Creato il 08 giugno 2015 da Allocco @allocco_info

Lo sapevate che gran parte della zootecnia dell’Italia settentrionale è viva solo grazie al lavoro oscuro di migranti arrivati dall’India? Per fortuna i migranti cambiano la storia del mondo anche qui, in Italia e, malgrado debbano conquistare pane e dignità in condizioni ancora inaccettabili, svolgono già una funzione essenziale nelle campagne nostrane. Ne hanno scritto da poco Tonino Perna e Alfonso Gianni ricordando che la terra disponibile c’è, per questo serve una legge che impedisca un ulteriore consumo di suolo con il cambio di destinazione d’uso per le terre agricole, quasi sempre collinari. Ed è proprio in collina che potrebbe (ri)fiorire una produzione di frutta di qualità potenzialmente ineguagliabile. Sulle nostre antiche terre possono nascere nuove comunità di vita. Sembra un bel sogno ma non bisogna addormentarsi

di Piero Bevilacqua da Comune-info

Che i grandi flussi migra­tori costi­tui­scano feno­meni inar­re­sta­bili, desti­nati a cam­biare il volto dei paesi, dovrebbe esser noto in Ita­lia, terra d’emigrazione e di antica sapienza sto­rica. A poco val­gono le bar­riere, gli stre­piti, le paure di fronte a pro­cessi demo­gra­fici e sociali incon­te­ni­bili. Essi avan­zano a dispetto di tutto, pro­ce­dono anche mole­co­lar­mente e cam­biano la sto­ria del mondo, che lo vogliano o no i contemporanei.

Per­ciò una isti­tu­zione come i Cen­tri d’Identificazione ed Espul­sione – nati dalla fan­ta­sia mise­ra­bile del centro-destra — ha sin­te­tiz­zato tutta la mio­pia e l’inettitudine delle nostre classi diri­genti di fronte a un feno­meno che non sono in grado di fron­teg­giare, ma nep­pure di com­pren­dere. Mio­pia e inet­ti­tu­dine para­dos­sali, per un paese in declino demo­gra­fico, mala­mente invec­chiato, che respinge l’energia vitale di una gio­ventù affa­mata di lavoro, di sta­bi­lità e di sicu­rezza di vita. Eppure, non man­cano gli esempi recenti che potreb­bero inse­gnare qual­cosa ai gover­nanti ita­liani e anche a quelli europei.

I quali, come s’è visto di recente, di fronte alle eca­tombi nel Medi­ter­ra­neo, con­den­sano la loro alta pro­get­tua­lità nell’idea di affon­dare i bar­coni dei dispe­rati. Qui gli algo­ritmi degli stra­te­ghi della finanza pre­ci­pi­tano nel ridi­colo. Negli anni ’90 gli USA hanno cono­sciuto una ondata di immi­gra­zione fra le più vaste e intense della loro storia.

Quell’immissione demo­gra­fica, pro­ve­niente dal Sud e Cen­tro Ame­rica, ha costi­tuito, fino all’ 11 set­tem­bre, una delle leve della straor­di­na­ria espan­sione eco­no­mica del decen­nio. Nuova popo­la­zione, dun­que nuovi biso­gni di case, ser­vizi, cibo e beni, e tanta dispo­ni­bi­lità di forza lavoro a basso costo. E ancora oggi è l’immigrazione che tiene in piedi la base ali­men­tare di quel paese. In Cali­for­nia, la “cam­pa­gna” degli USA, quasi nes­suna rac­colta di frutta e ortaggi sarebbe pos­si­bile senza il lavoro dei lati­nos, in grado di reg­gere un duris­simo lavoro a tem­pe­ra­ture insop­por­ta­bili per la popo­la­zione americana. Non è un modello da imi­tare, ma è la realtà.

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Ma anche a casa nostra, lo ricor­dano giu­sta­mente Tonino Perna e Alfonso Gianni nel loro arti­colo, gli immi­grati svol­gono già una fun­zione eco­no­mica deci­siva nelle nostre cam­pa­gne, ancor­ché in con­di­zioni spesso inac­cet­ta­bili. Si fa poco sapere agli ita­liani, ad es., che gran parte del set­tore zoo­tec­nico del Nord Ita­lia è stato tenuto in vita dal lavoro oscuro e silen­zioso degli immi­grati dall’India.

Ma quanto pro­pon­gono Perna e Gianni può diven­tare in effetti un grande pro­getto. Costi­tui­sce una strada non solo utile e per­cor­ri­bile, ma obbli­gata per un insieme di ragioni. Intanto per­ché ripor­tare alla nostra terra migliaia di gio­vani afri­cani o di altri altri stati che l’hanno dovuta abban­do­nare nel loro paese, per mise­ria o per guerra, signi­fica dare una pro­spet­tiva a una parte impor­tante della popo­la­zione migrante. Al tempo stesso, l’ingresso di tanti gio­vani che hanno espe­rienza e voca­zione per il lavoro agri­colo potrebbe rimet­tere in vita ter­ri­tori vastis­simi non solo del nostro Sud, ma anche delle col­line pre­ap­pe­ni­che di tutta la Peni­sola, oggi in abban­dono o in via di spo­po­la­mento. Infine, porre il feno­meno dell’immigrazione al cen­tro di un vasto pro­getto di inse­ri­mento sociale, farne una leva di pro­gresso eco­no­mico e ambien­tale di tutto il paese, raf­for­ze­rebbe enor­me­mente il discorso di pura difesa uma­ni­ta­ria degli immi­grati che oggi fa la sini­stra e le forze demo­cra­ti­che. Qui sta un nodo di ela­bo­ra­zione poli­tica di asso­luto rilievo, che può disin­ne­scare la miscela popu­li­stica e xeno­foba della destra italiana.

Com’ è ovvio, il pro­cesso di inse­ri­mento dei nuovi arri­vati nelle nostre cam­pa­gne non può essere affi­dato alla spon­ta­neità. Que­sti mira­coli del cosi detto libero mer­cato avven­gono solo nella testa degli eco­no­mi­sti neo­li­be­ri­sti. Occorre che la mano pub­blica fac­cia la sua parte, sia a livello cen­trale, con appo­site leggi, sia in peri­fe­ria, tra­mite le ammi­ni­stra­zioni comunali. La base di par­tenza è la dispo­ni­bi­lità della terra. Esi­stono immense esten­sioni di ter­ri­tori abban­do­nati, ricor­dano Perna e Gianni. Ma molti di que­sti, spe­cie se col­lo­cati non lon­tano dal mare, sono in attesa di edi­fi­ca­zione, per­ché la spe­ranza di arric­chirsi con la ren­dita non muore mai. E dun­que occorre sta­bi­lire per legge l’impossibilità netta e inva­li­ca­bile di cam­biare desti­na­zione d’uso alle terre agri­cole. Tanto più che si tratta quasi sem­pre di terre col­li­nari, che assol­vono un com­pito di equi­li­brio ambien­tale e idro­geo­lo­gico deci­sivo per la sicu­rezza di ter­ri­tori e abi­tati. Ma i comuni dovreb­bero fare la loro parte, impe­gnan­dosi a inven­ta­riare le loro terre e quelle dema­niali disponibili.

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In que­ste aree, che rap­pre­sen­tano cer­ta­mente l’osso della nostra agri­col­tura, è pos­si­bile svi­lup­pare eco­no­mie niente affatto marginali. Nelle migliori terre di col­lina potrebbe fio­rire e in parte rifio­rire la frut­ti­col­tura di qua­lità, in grado di valo­riz­zare la bio­di­ver­sità agri­cola ine­gua­glia­bile di cui ancora dispo­niamo. Oggi esi­ste solo a livello ama­to­riale, si dovrebbe innal­zare a una scala accet­ta­bile di pro­du­zione e immet­tere nel mer­cato. Ma accanto all’agricoltura si potrebbe svi­lup­pare un ambito gra­ve­mente sot­to­va­lu­tato: quello della silvicultura.

E’ poco noto che nel Mez­zo­giorno l’intervento della Cassa, che ha rifo­re­stato larga parte delle nostre mon­ta­gne e col­line – limi­tando le allu­vioni che perio­di­ca­mente fune­sta­vano paesi a abi­tati – ha avuto un indi­rizzo molto spe­ci­fico: si è limi­tato alla pro­te­zione del suolo dai feno­meni di ero­sione. Oggi noi abbiamo km qua­drati di bosca­glia e di mac­chia e siamo costretti a impor­tare dall’Europa il legname da opera: noci, ciliegi, casta­gni, oltre a quello dei paesi tro­pi­cali. Si apre dun­que uno sce­na­rio di pos­si­bi­lità di nuova fore­sta­zione con alberi di pre­gio di straor­di­na­ria ampiezza, in grado di far rivi­vere tanti paesi e terre oggi abban­do­nati. Tanto più che alla sel­vi­col­tura si può accom­pa­gnare l’allevamento, soprat­tutto di ani­mali da cor­tile, e l’uso delle acque interne, capaci di pro­durre red­dito immediato.

Natu­ral­mente, a valle, si pre­senta il pro­blema della com­mer­cia­liz­za­zione dei pro­dotti. E’ que­sto l’altro grande nodo su cui inter­ve­nire. Lasciare i pro­dut­tori in balia della grande distri­bu­zione signi­fica stroz­zare i loro red­diti e con­dan­narli all’abbandono dell’impresa. E qui occorre impa­rare dall’esperienza della riforma agra­ria del 1950. Le imprese che allora ebbero suc­cesso e riu­sci­rono a soprav­vi­vere, furono quelle che ebbero una quota suf­fi­ciente di terra (almeno 5 Ha) e la casa. Ma che al tempo stesso godet­tero dell’assistenza tec­nica degli Enti di riforma e la pos­si­bi­lità di accesso al mer­cato. La crea­zione di coo­pe­ra­tive, come quelle pre­vi­ste dal Decreto Gullo per l’assegnazione delle terre incolte, del 1944, dovrebbe costi­tuire una piat­ta­forma impor­tante dell’intero pro­getto, in grado di met­tere insieme effi­cienza eco­no­mica e rela­zioni soli­dali. Non è solo in gioco la pos­si­bi­lità di valo­riz­za­zione eco­no­mica dei ter­ri­tori. Si gioca qui anche la scom­messa di rico­struire, sulle nostre anti­che terre, nuove comu­nità di vita

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