La vicenda di Franco Lamolinara e del britannico Chris McManus rapiti lo scorso maggio, non è nuova. C’era da aspettarsela. Fa parte di una storia antica. I due ingegneri, che lavoravano per la ditta di costruzioni italiana B. Stabilini, stavano bene e addirittura gli stessi familiari di Lamolinara pare che nutrissero forti speranze di avere il loro congiunto a casa prima di Pasqua. Non è stato così. Qualcosa è andato storto. Che cosa? La risposta non è difficile a trovarsi. Non c’è stato coordinamento alcuno tra i servizi di intelligence dei due Paesi in causa e quelli nigeriani. Tra di loro si è fatto il gioco dei tre compari sordi.
Ciò che è accaduto alla fine è stato il risultato di un lungo percorso di negazione di ogni collaborazione, il frutto di un’azione discordante di fronte a una situazione drammatica, come avvenuto in altre occasioni. A cominciare dal caso Moro.
Quella di Lamolinara è anche la storia di come funzionano i nostri servizi segreti, e della loro decennale subalternità rispetto non solo a quelli britannici ma anche a quelli statunitensi e chissà a quanti altri servizi del mondo. C’erano tutte le premesse perché ai due ostaggi di Boko Haram uccisi in Nigeria l’8 marzo, fosse risparmiata la vita. Per Lamolinara era stata perfino pagata una parte del riscatto e pare che le trattative continuassero. Poi all’improvviso un raid dei servizi segreti britannici e nigeriani, specializzati in lotta al terrorismo. Nel nostro caso il gruppo jihadista di Boko Haram, nello stato di Kaduna (fonte: The Guardian).
A scanso di equivoci il premier britannico David Cameron ha chiarito che i due prigionieri sono stati uccisi dai rapitori e che il blitz, al quale hanno partecipato una ventina di soldati britannici, tra cui anche uomini dei Royal Marines, è stato autorizzato da lui in persona.
Ma non tutto è chiaro. Ci pare che poco importa che il presidente del Consiglio Mario Monti sia stato avvisato dell’operazione solo dopo il suo inizio. Non crediamo che sarebbe cambiato molto se fosse stato avvisato due mesi or sono, a parte che è molto strano che in dieci mesi dall’avvenuto sequestro, non ci sia stato un chiarimento tra le intelligence dei due Paesi sulle strategie operative per la risoluzione di casi come quello che da maggio travagliava i due Paesi “amici”. Come è strano che – lo ha dichiarato sempre Cameron - i due ostaggi sarebbero stati uccisi prima dell’inizio del blitz.
Anche Giorgio Napolitano dà addosso alla Gran Bretagna e chiede «un chiarimento politico-diplomatico» per non avere né consultato né informato l’Italia. Ribatte il ministro britannico William Hague: l’Italia è stata informata «ad operazione avviata».
Ma tra le righe di quello che dice in politichese il presidente del Copasir, Massimo D’Alema, leggiamo qualcosa che forse resterà sempre inesplicato: «Occorrerà chiarire – dice – il ruolo dei nostri servizi segreti e valutare le iniziative svolte, in questo lungo periodo, fino a ieri». In questo lungo periodo, appunto. Perché da troppo tempo le cose vanno per il verso sbagliato. Un esempio classico è d’obbligo.
Il 16 marzo 1978, alle ore 9.45, con un telegramma riservato, l’ambasciatore britannico a Roma Campbell avvisò Londra che Moro era stato rapito, poco più di un’ora prima. Si stava recando in macchina alla Camera dei Deputati dove, quella stessa mattina, sarebbe nato il primo governo della storia della Repubblica a partecipazione indiretta del Pci. Ossia la celebre “non sfiducia”, un primo importante passo verso la realizzazione dell’idea del compromesso storico tra comunisti e cattolici. Nell’attacco al presidente, avvenuto in via Fani, con una tecnica chirurgica da commando militare molto simile a quella utilizzata dalla Delta Force statunitense, questi strani brigatisti, armati di mitragliette Skorpion, riescono in trenta secondi ad uccidere i cinque membri della scorta e a sequestrare, illeso, lo statista pugliese.
Il governo italiano e tutte le forze politiche democratiche entrano in uno stato di smarrimento e confusione. A mobilitarsi è soprattutto il ministero dell’Interno presieduto dall’onorevole Francesco Cossiga. Migliaia di posti di blocco di polizia e carabinieri vengono allestiti a tamburo battente da Bolzano a Trapani, senza alcun piano strategico.
Il 17 marzo, di buon mattino, Squillante convoca Macmillan al Viminale per un colloquio segretissimo con l’ammiraglio Celio, responsabile dei Corpi speciali italiani. Scrive Campbell:
“Celio ha affermato che gli italiani ci sarebbero grati se potessimo fornire immediatamente (cioè oggi) un istruttore delle Sas, [Special Air Service, i commandos inglesi] con particolare esperienza nell’affrontare uno stato di assedio (ossia, nel caso fosse localizzato il nascondiglio di Moro e dei suoi rapitori). Inoltre, gli italiani hanno richiesto una ventina di bombe [stamp bombs], del tipo cioè utilizzato a Mogadiscio”.
Il riferimento alla capitale della Somalia non è casuale. Qualche mese prima le teste di cuoio della Repubblica federale tedesca, hanno liberato con un colpo di mano i passeggeri di un volo Lufthansa sequestrato dalla Raf (Frazione dell’armata rossa), il gruppo terroristico più pericoloso in Europa. I commandos tedeschi, prima del blitz, hanno fatto saltare i portelloni dell’aereo con le stamp bombs.
Che fretta hanno Cossiga, Celio e Squillante di convocare ad appena ventiquattro ore dal rapimento, i diplomatici di una potenza straniera? E’ evidente che Cossiga si fida più degli inglesi che dei suoi connazionali e colleghi di partito. In ogni modo anche le pietre sanno che Moro o si salva subito o mai più. I più accorti sono certi inoltre che l’operazione da mettere in campo è di estrema difficoltà e richiede competenze da apparati militari inesistenti in Italia. Corpi abituati ad operare in stato di guerra. E’ pensabile che una mobilitazione di forze speciali di tale livello non sia fondata su informazioni sicure.? Moro è forse prigioniero all’interno di un bunker inaccessibile? E’ rinchiuso dentro una struttura a sua volta inclusa in un‘area militare off limits?
L’ammiraglio Celio ha talmente fretta che propone a Macmillan di “inviare immediatamente un aereo italiano a Londra per prelevare l’istruttore e il materiale esplosivo”.
Poche ore dopo, la richiesta italiana viene accolta. La notizia è data da Morland, addetto militare della Marina e dell’Aviazione dell’ambasciata di Sua Maestà, a Roma. Quella stessa notte del 17 marzo, gli inglesi inviano due istruttori e venti cariche esplosive (stun grenades). Il via libera viene dai ministeri britannici della Difesa e dell’Interno e dal premier Jim Callaghan in persona.
Perchè l’operazione fallisce? Chi impedisce l’ attuazione del blitz? Questa è la vera questione. Tutto il resto, fino al ritrovamento del cadavere dello statista in via Caetani, non sarà altro che una colossale e snervante messa in scena.
Giuseppe Casarrubea