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Le trasformazioni del dialogo: dal bipolarismo ideologico al bipolarismo “civilizzazionale”

Creato il 02 novembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Le trasformazioni del dialogo: dal bipolarismo ideologico al bipolarismo “civilizzazionale”

Il testo che segue è quello della presentazione di Hans Köchler, fondatore e presidente dell’International Progress Organization (e membro del Comitato Scientifico di “Geopolitica”), alla sessione inaugurale del 10o Forum di Rodi, cui hanno preso parte anche due rappresentanti dell’IsAG, Daniele Scalea e Tiberio Graziani. Quest’ultimo ha avuto anche occasione d’intervenire in una delle tavole rotonde tematiche: il testo del suo intervento è già stato pubblicato.

 
Presidente Jakunin, Eccellenze, Amici, Signore e Signori,

in questa solenne occasione – nella quale rendiamo omaggio al World Public Forum “Dialogue of Civilizations” – permettetemi di condividere con voi alcune riflessioni su ciò che vorrei descrivere come “trasformazioni del dialogo”, con una breve visione per il futuro dei nostri sforzi comuni in qualità di, ormai, comunità globale di persone con affinità di pensiero. Spero vogliate perdonarmi alcuni riferimenti al passato in questo particolare momento in cui, guardando indietro a quanto è stato realizzato, cerchiamo di definire l’approccio futuro verso un vero e proprio dialogo tra civiltà come fondamento di un ordine mondiale giusto e pacifico.

Quando nel settembre 1972 – più di quattro decenni fa – inviai una lettera alla Divisione di Filosofia dell’UNESCO, suggerendo l’organizzazione di una conferenza su quello che descrissi al tempo come “le dialogue entre les différentes civilisations”, non sapevo ancora che questa nozione sarebbe diventata un paradigma di base per le discussioni sull’ordine mondiale del XXI secolo – così come non avevo idea, allora, che il sistema bipolare della Guerra Fredda sarebbe crollato improvvisamente meno di due decenni dopo. Nell’era del conflitto Est-Ovest, la nostra attenzione era concentrata sulla più seria minaccia per la pace, vale a dire il confronto nucleare, che temevamo si potesse scatenare a partire dalla rivalità ideologica e dalla competizione strategica tra i due blocchi di potere. Il nostro approccio, in seno all’International Progress Organization, era dettato dalla convinzione che l’identità culturale avesse radici più profonde nella mentalità collettiva piuttosto che in qualsiasi dottrina ideologica, e che una migliore conoscenza e, di conseguenza, l’apprezzamento dell’“altra” cultura e stile di vita potesse aiutarci a costruire ponti tra blocchi profondamente divisi ideologicamente e politicamente. Questo è stato il motivo per cui, nella nostra Dichiarazione del 1974 sulla “Auto-comprensione della Cultura delle Nazioni” abbiamo sottolineato, in sintonia con il delegato dell’UNESCO, il “diritto all’autodeterminazione culturale di tutte le culture nazionali” e invitato le Nazioni Unite a prestare attenzione allo “sviluppo degli aspetti culturali della politica estera” .

Era per noi chiaro che ciò che è stata poi definita “coesistenza pacifica” tra le nazioni con diversi sistemi politici era sostenibile solamente sulla base del rispetto reciproco dell’altrui identità culturale o civiltà. Quella che abbiamo identificato e descritto come “dialettica culturale dell’auto-comprensione” significava, per noi, che nessuna cultura o civiltà può comprendere pienamente se stessa e raggiungere uno stato di maturità, se non è in grado né disposta a mettersi in relazione e ad avvicinarsi ad altre civiltà sulla base del principio di reciprocità. In termini filosofici, ed in particolare secondo le norme di etica, sarebbe una “contradictio in adjecto” (una contraddizione in termini) rifiutare una cultura o civiltà diversa e, allo stesso tempo, insistere sulla piena ed incondizionata realizzazione del proprio sistema di valori e della propria percezione della vita. Una civiltà può prosperare solo se è aperta ad altre influenze, nel più vero senso di integrazione. La storia ha ampiamente dimostrato che una civiltà che si rifiuta di interagire con altre comunità e con le loro differenti tradizioni, nonché di accettare influenze esterne, è destinata a fallire ed a sparire dalla storia in breve tempo. Questa è la convincente tesi sostenuta dalla studiosa sino-americana Amy Chua.

Dopo diversi decenni ed a seguito di una rivoluzione sistemica (a livello mondiale), siamo di nuovo di fronte ad un bipolarismo, anche se questa volta non tanto su basi ideologiche, quanto piuttosto come contrapposizione fra civiltà o (in casi più specifici) culture diverse. Il crollo dell’ordine bipolare della Guerra Fredda ha portato alla formazione, almeno in ambito politico e militare, di una costellazione unipolare (anche se, come si spera, temporanea). In base alle nuove circostanze e, in particolare, in assenza di un genuino equilibrio di poteri, i soggetti dominanti ovviamente non hanno resistito – o non hanno saputo resistere – alla tentazione di cercare di rimodellare l’ordine globale in base alla loro comprensione, o idea, di civiltà. Il progetto del 1991 per un “Nuovo Ordine Mondiale”, proclamato in pompa magna dopo la Seconda Guerra del Golfo, ed il successivo progetto per un “Nuovo Medio Oriente” ne sono un esempio. Questa auto-affermazione di un potere egemonico ha creato una nuova dicotomia e di fatto un nuovo tipo di conflitto Est-Ovest tra coloro che affermano la supremazia della propria civiltà (che rappresenta la versione moderna di “egemonia ideologica”) da un lato, e quelli che mirano ad affermare o riaffermare la propria identità culturale, dall’altro.

In questo contesto, il paradigma del “dialogo di civiltà” assume una nuova dimensione; ha subito una trasformazione attraverso la quale è diventato una sorta di antidoto, ossia un mezzo per “neutralizzare” l’impatto di scontri sempre più violenti tra diverse percezioni del mondo che sono radicate nelle identità di civiltà in competizione fra loro, credenze religiose incluse. In relazione a importanti riassetti strategici che hanno interessato regioni geopoliticamente sensibili, in particolare l’Eurasia, questi conflitti culturali e religiosi (le “guerre culturali” del 21° secolo) hanno il potenziale non solo di innescare lunghe guerre civili (come ad esempio in Pakistan, Iraq, Siria, o nella nazione africana della Nigeria), ma possono portare ad un più ampio confronto “sistemico” tra i principali attori geopolitici – una nuova versione di “guerra indiretta” (proxy war) con toni civilizzatori. In questa costellazione geopolitica mutata e carica di tensioni, nuove linee di frattura tra civiltà appaiono, o vengono nuovamente a galla. I processi di trasformazione in corso nel mondo arabo sembrano inoltre essere stati il catalizzatore di rinnovate lotte per l’egemonia religiosa. La distruzione indiscriminata di moschee e luoghi di culto sufi in Mali e Libia, compresi quelli delle capitali, è una testimonianza di tali divisioni intra-islamiche (va notato come questi eventi recenti siano stati quasi del tutto trascurati dai faziosi media anglo-americani e delle loro “agenzie sorelle”). Anche la Siria rischia di diventare una vittima del conflitto settario, e l’unità e l’integrità territoriale del paese sono in gioco. I ripetuti e brutali attacchi ai fedeli e alle chiese cristiane in Nigeria sono un’altra preoccupante testimonianza dell’apparente rinascita dello sciovinismo religioso. Sarà una delle sfide più importanti della nostra epoca, ed un compito fondamentale per le Nazioni Unite e l’UNESCO, l’elaborazione di una strategia globale di dialogo tra civiltà distinte, includendo le identità religiose, in un contesto unipolare altamente volatile che è il risultato del crollo dell’equilibrio di potenza del sistema bipolare. L’evoluzione verso un futuro ordine multipolare – o multicentrico – che implica l’emergere di un nuovo equilibrio di poteri, è irto di ostacoli e di rischi di conflitti armati. Quasi quotidianamente siamo testimoni più o meno passivi di fronte a queste minacce.

Non solo nel mondo arabo e nel più vasto Medio Oriente, processi di rapida trasformazione socio-culturale hanno cambiato profondamente, o stanno per farlo, il panorama politico e minacciano l’”ordine costituito” – con conseguenze di vasta portata per la pace e la stabilità globale. Allo stesso tempo, interventi militari compiuti in nome dei diritti umani e della democrazia hanno destabilizzato quelle stesse regioni e hanno portato ad una profonda alienazione dei popoli colpiti rispetto al sistema di valori (il “modello occidentale”) e alla civiltà che i paesi interventisti rappresentano e dichiarano di voler difendere. R2P – “Responsibility to Protect” (Responsabilità di proteggere), è diventata la parola d’ordine per legittimare, l’anno passato, un intervento diretto in Libia, e quest’anno un intervento indiretto (per il momento) nella Repubblica Araba di Siria. Di fronte a queste presunte giustificazioni per l’uso delle armi, ci si potrebbe chiedere se l’idea del “dialogo di civiltà” – che richiede rispetto e collaborazione reciproca – sia stata screditata, o sia diventata un sogno utopico. Come ho sottolineato in precedenza, nuovi problemi di coesione sociale, tensioni interreligiose e violenze sono sorte in molte regioni – in Africa, Asia, Europa e Medio Oriente. Conflitti culturali e/o scontri militari in paesi lontani spesso hanno avuto un effetto negativo sulla pace religiosa e sulla stabilità politica nazionale. Anche questo è diventato un problema, quasi un incubo, per i leaders delle sempre più multiculturali società d’Europa, come dimostrano le recenti dichiarazioni dei primi ministri di Germania e Regno Unito, e dell’ex presidente francese.

Qual è la rilevanza, dobbiamo chiederci, del paradigma dialogico in queste circostanze? È sostenibile un “multiculturalismo” (una società multiculturale) in queste condizioni – soprattutto in un momento in cui gli scontri in questione hanno sfumature culturali forti e distinte, o elementi di politica identitaria? In che modo i cambiamenti socio-politici apportati dall’utilizzo a livello mondiale (i.e. transnazionale) dai nuovi “social media” influenzano la pace e la sicurezza internazionale? Questi processi sono una opportunità o una sfida per il dialogo? Queste sono alcune delle domande scottanti e urgenti la cui risposta determinerà la forma ed il destino dell’ordine globale del XXI secolo, e che certamente saranno esplorate nei giorni a venire nel nostro forum qui nell’antica isola di Rodi, che nel corso dei secoli ha vissuto molti eventi del genere a cui ho fatto riferimento. A nome dell’International Progress Organization, che è orgogliosa di essere partner del World Public Forum “Dialogue of Civilizations” fin quasi dai suoi inizi, auguro agli organizzatori e agli amici – sotto la guida del presidente Jakunin e del suo team del Comitato Esecutivo ed Organizzativo – non solo il successo di questa sessione del 10° anniversario, ma molti altri decenni di pensiero creativo e critico, e di auto-riflessione sulla civiltà. Con i suoi continui sforzi, diffondendo gradualmente e costantemente una “rete di dialogo” in tutto il mondo, il World Public Forum ha già fatto la differenza ed ha avuto un notevole impatto sul dibattito globale. I vostri continui sforzi saranno ancora più necessari nei tempo a venire – in modo che la società civile internazionale possa essere in grado di realizzare una trasformazione pacifica attraverso il dialogo tra partners uguali nel grande progetto di civiltà del XXI secolo: vale a dire conciliare le identità culturali e nazionali con la esigenze di solidarietà globale e di pace.

(Traduzione dall’inglese di Enrico Ferrini)


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